da “Il pianoforte a Napoli nell’Ottocento” di Vincenzo Vitale (Napoli,
13 dicembre 1908 – Ivi, 21 luglio 1984)
Ernesto A. L. Coop
Un vecchio album di pezzi pianistici rilegato in tela ed oro. Sulle copertine, tra arabeschi e ghirigori, titoli annuncianti moti dell’animo, fenomeni meteorologici, località turistiche, date fatidiche (L’âme qui rêve. L’imitazione del temporale. La pluie des perles. Sur le lac) e decorazioni floreali che incorniciano zuccherose immagini femminili. Da una di quelle copertine (lucida, fastosa nella sua decorazione policroma) sorride, verginale e vasta, una giovinetta che pare diffonda odor di vaniglia, in contrasto con quello, acre, di muffa, che impregna tutto il volume.
La
bellissima è
il titolo del pezzo. Autore ne è Ernesto A. L. Coop, dal solenne triplice nome
e dall’esotico cognome di origine anglo-sassone.
Se Francesco Lanza fu un artista cui la
cultura musicale non difettò, e che abbia ampia e sicura nozione dell’opera dei
grandi romantici, non così può dirsi del suo quasi contemporaneo Ernesto A. L.
Coop. In questo distinto gentiluomo, che usava carrozza e cavalli per recarsi
ad impartir lezioni nelle case dei nobili e dei ricchi napoletani, v’era solo
un’epidermica conoscenza del romanticismo pianistico.
L’eroismo, la tristezza, l’amore, il
pensiero della morte, che si trasfigurano in atto poetico nei sommi finirono in
lui nella decalcomania.
Ernesto Coop fu il campione d'una
malinconia di maniera e, nella fiera dell'impudicizia sentimentale, occupò un
posto di privilegio. Basterebbero i soli titoli dei suoi pezzi pianistici a
denunziarne non che i limiti, la povertà dell'invenzione, la carenza del gusto: La
tristezza, La smania, Lo scherzo, La sciocchezza. E soprattutto il Pensiero
lugubre. Notturno op. 50, che fece illanguidire per decenni i frequentatori
dei salotti napoletani nella seconda metà dell’Ottocento.
I Notturni di Field e di Chopin,
i Nachtstücke di
Schumann, il notturnismo minore di Teodoro Döhler (che pure aveva
una sua cifra di distinzione) e quanto, ispirandosi alle ombre, l’estetica
romantica aveva prodotto, erano ancora impopolari nel ceto incolto o
affezionato solo alla musica da teatro e che preferiva la più accessibile e
dichiarata sbavatura delle pagine di Ernesto Coop, cavaliere delle ‘periodiche’
partenopee. Era nato a Messina il 17 giugno 1802[2]. Il padre era avvocato, ed
appassionato cultore di musica. Nella sua dimora à la page presso il mondo elegante ed intellettuale cittadino si
eseguivano Haydn, Mozart, Beethoven. E se si tiene conto di questo importante
fattore ambientale si ha ragione di ritenere che gli insegnanti del Coop, Aspio
e Mazza, non influissero beneficamente sull'evoluzione musicale del proprio
alunno, ma che anzi ne deviassero la buona formazione iniziale.
Non che il giovane pianista fosse, come
esecutore, privo di talento. Anzi, se si leggono le cronache delle sue
esibizioni, si rivela quanti ammirati consensi ottenessero le sue performances nei cenacoli privati e
nelle pubbliche ‘tornate’. Fin dal suo arrivo a Napoli si distinse per doti di
suoni e di eleganza, quantunque la sua precisione non fosse delle più
ammirevoli. Ma il successo gli arrise e non mancò di far giungere i suoi echi
fino ad una stella del concertismo internazionale presente allora a Napoli: a
Sigismondo Thalberg, che invitò il giovane pianista siciliano ad eseguire con
lui pezzi trascritti per due pianoforti. Importante attestazione di stima,
questa, che fornì al Coop il principale titolo di vanto; superiore forse al
successo ch’egli ebbe col suo Pensiero
lugubre.
[...]
Vincenzo Vitale, Il pianoforte a
Napoli nell’Ottocento, Saggi Bibliopolis 10, Napoli: Bibliopolis 1983
A. B.