25 febbraio 2015

A colloquio con… Marc Bouchkov

«Una delle cose che più mi affascina dell’essere musicista è la certezza che non arriverà mai un giorno nel quale potrò dire: “Non ho più nulla da imparare”. La musica è una sfida quotidiana, una perenne e inarrestabile ricerca, un impegno costante… Ma ne vale davvero la pena!»

(Foto: Nikolaj Lund)
Classe 1991, nato in Francia da una famiglia di musicisti russi, vincitore nel 2010 del “Concours International pour violon Henri Koch” e nel 2013 del “Concours International de musique de Montréal” nonché finalista, nel 2012, al prestigioso “Concours Reine Elisabeth” di Bruxelles, Marc Bouchkov – a dispetto della giovanissima età – ha già una brillante carriera all’attivo. Lo scorso 12 febbraio (con replica il 14), Marc ha finalmente debuttato a Milano con l’Orchestra I Pomeriggi Musicali, per l’occasione guidata da Alvise M. Casellati.



(Foto: Nikolaj Lund)
Un debutto che ha lasciato il segno. Con Las cuatro estaciones porteñas di Astor Piazzolla, il giovane violinista ha, infatti, entusiasmato il pubblico: merito, senza dubbio, della tecnica brillante e della naturalezza che mostra nel suonare, ma anche e soprattutto di un suono chiaro, pulito ed estremamente espressivo. Un suono che identifica e che rende ‘riconoscibile’ Bouchkov anche a chi lo ascolta per la prima volta. Talento, certo, ma anche uno studio e un’attenzione particolari suppongo. 

E così, quando ci incontriamo, dopo il concerto del 14 febbraio, è proprio da qui che prende avvio la nostra conversazione. «Fin da bambino sono stato affascinato dal fatto che ascoltando su cd i grandi cantanti riuscivo immediatamente a identificarli: riconoscevo la loro voce, il loro timbro. La stessa cosa accadeva con i grandi violinisti. Se si ascoltano, ad esempio, Fritz Kreisler, Jascha Heifetz, Zino Francescatti o Manuel Quiroga si percepisce immediatamente la grande attenzione che avevano per il colore, per il suono. Ho sempre posto un interesse particolare su quest’aspetto, andando alla ricerca della mia ‘voce’, del mio ‘suono’. È una ricerca che richiede tempo, passione e cura, ma la ritengo indispensabile e prioritaria».  




La sua esecuzione ha messo, però, anche in rilievo una notevole sintonia con l’orchestra e con il direttore: chiedo a Marc come sia possibile trovare un’intesa, in particolare se si è al primo incontro. «La musica è, innanzi tutto, comunicazione solo che al posto delle parole si utilizzano le note. Se si vuole comunicare con qualcuno è necessario essere interessanti e convincenti. Ed è quello che cerco di fare: ogni volta, però, è uno scambio reciproco dal quale esco rafforzato e più maturo. Un direttore, ad esempio, può darmi nuove idee e preziosi suggerimenti e può accadere che io riveda qualcosa della mia interpretazione. È per questo che lavorare con altri musicisti è così bello ma anche così importante».

E tra gli ultimi incontri avuti, Marc non può fare a meno di ricordare quello con Mariss Jansons. «È un’esperienza che non dimenticherò mai, una comunicazione che ha funzionato benissimo anche e soprattutto perché Jansons ha mostrato una disponibilità, una nobiltà d’animo e una volontà di lavorare insieme davvero sorprendenti».

Molto spesso, però, le prove prima di un concerto sono poche e non si ha il tempo di lavorare a lungo: diventa, allora, indispensabile conoscere a fondo la composizione che si deve eseguire. «Non solo la propria parte» mi fa notare Bouchkov «ma l’intera partitura. La naturalezza che arriva al momento del concerto è sempre il frutto di un lunghissimo lavoro. Solamente se si ha una conoscenza approfondita della composizione che si deve eseguire è possibile lasciarsi andare ed essere spontanei». 



E quello di Bouchkov è davvero un lunghissimo lavoro: dalla custodia del suo violino tira fuori la partitura de Las cuatro estaciones porteñas e mi spiega il suo sistema di studio. «Quando devo affrontare per la prima volta una nuova composizione ascolto un paio di registrazioni, possibilmente con interpretazioni molto diverse fra loro, per avere un’idea generale sul pezzo. Poi, se si tratta di un concerto con orchestra acquisto la partitura e inizio una specie di “gioco di piste”. Suono tutte le parti orchestrali, cercando di capire come il compositore sviluppa le sue idee: sviscero le frasi, i motivi e presto attenzione a come, ad esempio, un tema è presentato con uno strumento o una sezione orchestrale, prima, e riproposto, poi, altrove. Analizzo lo spirito della composizione, cerco di contestualizzarla storicamente, di vedere se ci sono riferimenti anche extra-musicali. Solamente dopo quest’analisi certosina inizio a guardare la mia parte, a mettere le diteggiature e le arcate, senza mai dimenticare, però, quel che accade dietro. È fondamentale sapere cosa e come suonano gli altri strumenti, conoscere le dinamiche orchestrali e capire come la parte del violino solista si “incastri” in tutto ciò. È un lavoro lungo, certo, ma davvero affascinante».

A questa visione a 360° di una composizione ha contributo, senza dubbio, l’esperienza orchestrale vissuta da Marc: «Ho fatto parte per 3 anni di un’orchestra ad Amburgo e ho imparato moltissimo: innanzi tutto, dal punto di vista della conoscenza del repertorio. Suonare le Sinfonie di Beethoven, Bruckner e Mahler è estremamente formativo anche per chi intende dedicarsi alla carriera solistica. Ho appreso, poi, molto anche dai colleghi e, in particolare, dal Primo Violino. Soprattutto, ho capito che in un concerto per strumento solista e orchestra quella del solista è una parte importante, a volte la più importante, ma pur sempre una parte di un tutto. Da questo punto di vista anche la musica da camera, che continuo a coltivare con grande passione, è stata ed è una preziosa guida».

Un grande influsso sulla formazione e sulla visione musicale di Marc l’ha avuto, però, anche il suo maestro, il violinista Boris Garlitzky. «L’insegnamento più prezioso che mi ha trasmesso è quello di non dimenticare mai il motivo per cui ho scelto di fare musica, di non allontanarmi mai dall’aspetto musicale. Mi ha insegnato a non avere fretta, a scegliere la strada forse più difficile, lenta e con meno successi immediati, ma più costruttiva e affascinante. Certo, l’idea di suonare in grandi sale o registrare con etichette prestigiose affascina qualunque solista, soprattutto i più giovani: ogni cosa, però, deve arrivare al momento giusto e con la giusta maturazione». 


L’incontro di Bouchkov con la musica è arrivato, in realtà, in tenerissima età: nato in una famiglia di musicisti – sia la madre che il padre sono violinisti – ha trovato estremamente naturale sentire il bisogno di suonare. Gli chiedo se pensa di aver perso qualcosa della sua infanzia o della sua adolescenza. «Assolutamente no. La musica è un linguaggio e se in famiglia parlano tutti la stessa lingua è naturale apprenderla, all’inizio per una sorta di imitazione. Nessuno, però, mi ha mai costretto. Ho iniziato a studiare con mio nonno e tra di noi c’era una specie di patto: prima il dovere, poi il piacere. Studiavo tutti i giorni un’ora e mezza o due ma poi ero libero di andare a giocare con i miei amici. È accaduto tutto in maniera estremamente naturale».

E mi racconta anche di quanto ‘naturali’ gli apparissero i primi concerti: «Quando si è bambini ci sono delle cose che non esistono: la paura, lo stress ma anche il senso di responsabilità. Il fenomeno concerto a quell’età viene percepito senza nessuna ansia. Arriva sempre, però, un momento in cui, all’improvviso, cambia tutto, senza sapere nemmeno il perché. A me è successo durante l’adolescenza, quando sono arrivati i primi concerti importanti e con essi il senso della responsabilità: quindi, anche la paura di sbagliare. L’unica difesa è lo studio, la preparazione. Mi capita spesso di rimpiangere il periodo della mia vita durante il quale potevo studiare tutti i giorni tante ore. Oggi non è più possibile farlo: diventa allora fondamentale, ancor di più, la qualità dello studio e la concentrazione che deve essere massima».

Ammette, però, di preferire i momenti in cui è in tournée. «Può sembrare un paradosso, ma riesco a studiare meglio e di più quando sono in giro. Ieri, ad esempio, avevo un giorno libero qui a Milano tra i due concerti e l’ho passato in teatro a studiare con estrema calma, concentrazione e tranquillità. Quando sono a casa, invece, devo affrontare, come tutti, i problemi e le incombenze della vita: pagare le tasse, l’affitto, andare in posta, fare la spesa, rispondere a mail o messaggi. Alla fine, non rimane, poi, così tanto tempo per studiare e nemmeno per riposarsi».

Certo poter dormire nel proprio letto è un gran vantaggio, mi dice ridendo, così come avere più occasioni per stare con amici e con persone care. «Nel tempo libero mi piace uscire, stare in compagnia, ascoltare concerti. Naturalmente, prediligo la musica classica ma ascolto anche altri generi musicali: mi diverto pure a comporre musica elettronica».

Tra gli ultimi entusiasmanti concerti a cui ha assistito mi racconta di quando a Parigi, alla Salle Pleyell, ha ascoltato, Leonidas Kavakos, uno dei violinisti di oggi che ama di più. «Sono stato sorpreso anche dalla notevole presenza di giovanissimi che c’erano quella sera. Credo di non averne mai visti così tanti tutti insieme a un concerto di musica classica».



Gli chiedo, allora, cosa si potrebbe fare, secondo lui, per avvicinare più giovani a questo mondo. «Credo sia sbagliato pensare e tentare di rendere popolare la musica classica: è un linguaggio difficile, la cui comprensione richiede tempo. È del tempo ben speso, però, perché è un universo che arricchisce profondamente da tutti i punti di vista. Sarebbe necessario far capire questo, far comprendere i benefici che la conoscenza di questo linguaggio apporta. Nella maggior parte dei casi la mancanza di interesse deriva solo da una mancanza di conoscenza, da una non abitudine all’ascolto. Bisognerebbe rendere la musica classica alla moda. Se, ad esempio, un affermato cantante pop o rock raccontasse ai suoi fan di essere un grande appassionato di sinfonica, opera o balletto, molti ragazzi ne sarebbero positivamente influenzati». 

Mi confessa di essere pessimista, a volte, sul futuro della musica classica, ma non abbastanza da rinunciare a combattere. «Una delle cose che più mi affascina dell’essere musicista è la certezza che non arriverà mai un giorno nel quale potrò dire: “Non ho più nulla da imparare”. La musica è una sfida quotidiana, una perenne e inarrestabile ricerca, un impegno costante… Ma ne vale davvero la pena!».


©Adriana Benignetti


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