L’incoronazione di Poppea
Dramma per musica in un prologo e tre atti
Musica
Claudio Monteverdi (Cremona, 15 maggio 1567 –
Venezia, 29 novembre 1643)
Gian Francesco Busenello (Venezia, 24
settembre 1598 – Legnaro, 27 ottobre 1659)
Prima rappresentazione
Venezia,
Teatro SS. Giovanni e Paolo, Carnevale 1643
Personaggi
La Fortuna,
soprano
La Virtù,
soprano
L’Amore,
soprano
Ottavia,
soprano
Drusilla,
soprano
Seneca,
basso
Arnalta, contralto
La nutrice, contralto
Lucano,
tenore
Un valletto,
soprano
Una
damigella, soprano
Un liberto,
tenore
Due soldati,
tenori
Un littore,
basso
Pallade,
soprano
Mercurio,
basso
Venere,
soprano
Familiari di
Seneca, consoli, tribuni, amori
La trama (testo tratto da Dizionario dell’opera 2002, a cura di Piero Gelli,
Baldini&Castoldi, Milano 2001, pp. 627-631)
Prologo
Amore dichiara la propria sovranità sulla Fortuna e sulla Virtù
nell’influenzare le sorti dell’uomo: lo spettacolo che seguirà sarà la
dimostrazione di questa tesi.
Atto primo
È l’alba: Ottone si aggira sotto i
balconi dell’abitazione di Poppea nella speranza di incontrarla, cantando con
struggimento una dolce aubade strofica (“Apri un balcon, Poppea”), ma scorge
due soldati di Nerone addormentati e fugge sconvolto per l’infedeltà
dell’amante. Svegliatisi di soprassalto, i soldati maledicono “Amor, Poppea,
Nerone,/ e Roma, e la Milizia” scambiandosi commenti sulla situazione precaria
dell’impero e sulle vicende private di corte. Tacciono all’apparire di Poppea,
che tenta di trattenere l’imperatore presso di lei (“Signor, deh non partire”).
È la prima delle tre scene che vedono protagonisti i due amanti da soli. La parte di Poppea, qui come negli altri
episodi di seduzione, si muove per intervalli morbidamente congiunti,
sottolineando spesso gli accenti delle parole con intervalli di seconda
diminuita, traducendo con dissonanze l’amarezza della partenza di Nerone e il
suo (finto?) venir meno. Il compositore
è abilissimo a frammentare il testo fra i due interlocutori, nel momento in cui
Nerone si lascia strappare la promessa del ripudio di Ottavia: la disposizione
testuale chiarifica che la promessa viene proprio estratta dalla bocca di
Nerone da Poppea, che lo ha quasi ipnotizzato. Poppea, rimasta sola, non
nasconde a se stessa la speranza di diventare imperatrice, ma la nutrice
Arnalta, in una scena arricchita di sinfonie strumentali, la mette in guardia
poiché «la pratica coi Regi è perigliosa». Il primo monologo dell’imperatrice
Ottavia, “Disprezzata Regina” (I,5), segue l’impostazione tradizionale della
scena di lamento: desolazione, cinica descrizione della sorte femminile,
maledizioni contro l’uomo traditore, accuse concitate nei confronti delle
divinità, sùbiti pentimenti e ricaduta nella depressione. A nulla vale la
morale spicciola offerta dalla nutrice di Ottavia, in sequenze cantabili e in
tempo ternario. Nessun giovamento trae Ottavia dal conforto filosofico
propostole da Seneca con una declamazione ben più aulica e fiorita. Stizzito,
un valletto si fa beffe del filosofo (“Queste del suo cervel mere invenzioni/
le vende per misteri, e son canzoni”), imitando sbadigli e starnuti. Seneca
medita sull’infelicità nascosta sotto le «porpore regali» e viene visitato da
Pallade, che gli annuncia la prossima fine, al che egli gioisce. Nerone
comunica a Seneca la decisione di ripudiare Ottavia (I,9): ne nasce uno scontro
sempre più serrato, durante il quale Nerone perde spesso la pazienza di fronte
alle ferme risposte del maestro, che lo accusa di «irragionevole comando». In
quella che è una delle scene più drammatiche dell’opera, importante anche per
la sua posizione centrale e per il contenuto (la sconfitta morale di quello
che, al termine dell’opera, sarà il vincitore Nerone, qui svelato nella sua
immaturità politica ed esistenziale), la fiducia di sé che Seneca esprime si
oppone alla crescente agitazione dell’imperatore, resa dagli scarti stilistici
dei suoi interventi rispetto a quelli del filosofo, composti e nello stesso
tempo veementi. Ripetizioni di parole, cambiamenti improvvisi di metro,
impennate melodiche all’acuto, impiego del caratteristico ‘stile concitato’
(note ribattute velocemente) dipingono la furia crescente di Nerone; invece
Seneca raramente ricorre a ripetizioni di parole e spesso chiude le frasi con
cadenze perfette e retoricamente disegnate (quasi uno stilema ricorrente per il
personaggio). Nerone è poi raggiunto da Poppea, la quale rinfresca
all’imperatore il ricordo della notte passata e, dopo averlo portato al massimo
dell’eccitazione, gli fa ordinare immediatamente la morte di Seneca.
Poppea si scontra con Ottone, che le rimprovera la sua infedeltà e viene poi
compatito da Arnalta: «Infelice garzone... quand’ero in altra età / non volevo
gli amanti / in lagrime distrutti, / per compassion li contentavo tutti».
Ottone è raggiunto dall’innamorata Drusilla, alla quale promette di dedicarsi,
anche se commenta ironicamente fra sé: «Drusilla ho in bocca, et ho Poppea nel
core».
Atto secondo
La prima parte dell’atto è tutta
dedicata a Seneca, che dopo un breve monologo riceve il secondo annuncio della
sua prossima morte, questa volta da Mercurio, che gli infonde serenità prima di
volare via sull’onda del suo virtuosismo vocale.
Un liberto comunica al filosofo l’ordine di Nerone: Seneca avvisa serenamente i
famigliari, che prorompono in un’invocazione a tre voci (“Non morir Seneca,
no”). Nella prima sequenza del brano, le voci entrano in imitazione su un
soggetto e un basso cromatici, con un effetto di crescendo drammatico che
sembra sincero. Nella seconda, ogni voce replica diatonicamente, su note
ribattute, «io per me morir non vo’». Dopo un allegro ritornello, la terza
sezione ne segue il ritmo di danza: ritornello e sezione ‘danzante’ sono
ripetuti (le parole cambiano), dopo di che si torna indietro, con la seconda
sezione e poi la prima, quella cromatica ed espressiva. Lo scanzonato ritornello
chiude l’episodio. La scena successiva, come intermezzo di contrasto, presenta
le schermaglie amorose del valletto e della damigella, una ventata di
freschezza e distensione nell’atmosfera cupa della corte, un po’ come avveniva
per gli interventi di Melanto ed Eurimaco nel Ritorno di Ulisse . «Hor che
Seneca è morto,/ cantiam, cantiam, Lucano»: all’invito di Nerone segue una
lunga scena di canti in onore di Poppea. Nel libretto era prevista la presenza
di altri personaggi (Petronio, Tigellino), ma il compositore sceglie di
affidare solamente a Lucano la replica al protagonista. Le due voci si annodano
e rincorrono, per scindersi su un ipnotico ostinato del basso: solo Lucano è in
grado di continuare il canto («Bocca, bocca, che se ragioni o ridi»), Nerone
emette sillabe e frasi spossate («Ahi, destin»). Ottavia ordina a uno
sbigottito Ottone di uccidere Poppea. Entra in scena Drusilla, che si conferma
come soprano-soubrette vagamente svampita. Essa è l’unica che osa sciogliere
una melodia spiegata (“Felice cor mio, / festeggiami in seno”) nel clima pieno
di sospetto del palazzo reale, senza assolutamente capire cosa le stia
accadendo intorno. Trascinati dall’ottimismo di Drusilla, anche la nutrice e il
valletto danno vita a una scena distensiva e comica. Ottone rinnova le sue
promesse di fedeltà alla ragazza, chiedendole però di prestarle i suoi vestiti
per compiere l’assassinio di Poppea. Drusilla sventatamente acconsente, non
senza precisare con slancio: «e le vesti e le vene io ti darò».
Frattanto Poppea si affida ad Amore per coronare i suoi sogni e si addormenta
nel giardino di casa. Arnalta le canta una dolcissima ninna-nanna in tre strofe
(“Oblivion soave” II,12). L’attentato di Ottone, travestito da donna, è
impedito da Amore, che era sceso in terra per vegliare la sua protetta e aveva
cantato un’aria in quattro strofe (“O sciocchi, o frali / sensi mortali”).
Atto terzo
Drusilla, sola in scena, canta un
altro dei suoi motivetti cantabili, ma viene sorpresa e imprigionata, in quanto
presunta autrice dell’attentato. Ottone confessa di essere il colpevole, su
isitigazione di Ottavia; Nerone capisce di avere finalmente il pretesto per
ripudiare l’imperatrice e spedisce Ottone e Drusilla in esilio. Un’altra scena
fra Poppea e Nerone contiene il duetto “Idolo del cor mio, giunta è pur l’ora”,
ricco di slancio melodico soprattutto al verso «Stringimi tra le braccia
innamorate». Seguono un monologo di Arnalta, felice per l’ascesa sociale di
Poppea (e sua) e il lamento di Ottavia (“A Dio Roma, a Dio Patria, amici a
Dio”). Incapace di pronunciare le parole, l’imperatrice ripudiata singhiozza su
una nota (la ‘a’ di “A Dio Roma”), esprime il dolore per il trionfo delle
«perverse genti», termina il suo asciutto monologo su un secco «A Dio». La
scena dell’incoronazione vede Poppea acclamata da un coro di consoli e tribuni,
e da un coro celeste, guidato da Venere in persona con Amore. Gli amanti
intrecciano l’ultimo duetto, il seducente “Pur ti miro”, in cui le voci si
annodano su un ostinato tetracordo discendente. Tale duetto probabilmente non
era previsto nella prima rappresentazione veneziana, della quale rimane traccia
solamente per la pubblicazione dello ‘scenario’. Il testo compare nel libretto
di una ripresa bolognese (1641), e di altre successive, del Pastor regio di
Benedetto Ferrari, ma anche nel Trionfo della fatica musicato da Filiberto
Laurenzi (Roma 1647). Al termine della vicenda dell’ Incoronazione , però, esso
assume un altro e più pregnante significato drammatico e strutturale, rispetto
a quelle occorrenze: sigla il trionfo degli amanti, facendo convergere le
premesse poste dal duetto di Fortuna e Virtù nel prologo, e da quello di Lucano
e Nerone (I,6), entrambi costruiti su un basso ostinato formato da un
tetracordo discendente.
A.B.