12 maggio 2013

Incontro ravvicinato con… Simone Pedroni

«Le cose più grandi a volte sono anche le più semplici e sono fatte di piccoli passi quasi invisibili, compiuti in una solitudine che è solo apparente, perché il suono, la musica senza il silenzio sarebbero nulla, non esisterebbero neppure»

Qual è stato il tuo primo approccio alla musica?
I miei primi ricordi legati alla musica sono chiarissimi nel tempo e nello spazio. Avevo circa 8 anni e decisi, autonomamente, di ascoltare un disco dei miei genitori: si trattava di una registrazione di “Preludi-Corali” per organo di Bach. Fui trovato da mia madre steso per terra nella mia camera come incantato da quei suoni, in attonito silenzio. In effetti l’organo ha suscitato e suscita tuttora (ho anche inciso un CD all’organo…) su di me un fascino tutto particolare.


Ci sono stati altri momenti che ricordi con particolare emozione e che ti hanno rivelato l’amore per quest’arte?
Un altro momento importante, sempre nello stesso periodo, è stato rappresentato dalla scoperta, vedendo il film Star Wars, che dietro le immagini c’era un’enorme orchestra sinfonica che suonava per due ore. Ho amato e amo molto le partiture sinfoniche scritte per il cinema, in particolare quelle lussureggianti di John Williams, un compositore che scrive con i colori. Le recente bellissima esperienza dell’ esecuzione, e successivamente dell’incisione, del Concerto “Piccolo Mondo Antico” di Nino Rota con l’Orchestra Sinfonica Verdi diretta da Giuseppe Grazioli, mi ha riconfermato in quest’amore davvero antico per quella forma di arte totale che attraverso il melodramma è passata poi anche nel cinema.




La scelta d’intraprendere lo studio del pianoforte è stata compiuta in totale autonomia?
I miei genitori ascoltavano musica classica ma anche altri generi: ricordo Battisti, un disco con le canzoni delle mondine, Milva che canta Brecht… Nessuno mi ha mai obbligato allo studio di uno strumento: fui, però, fortemente sostenuto quando la cosa divenne più di un’apparente “infatuazione musicale”.

Tra i tanti maestri che hanno segnato il tuo percorso musicale ce n’è qualcuno che ha lasciato una particolare impronta sul tuo modo di suonare?
Non ho una predilezione per qualcuno in particolare, ma a ciascuno porto un affetto e una riconoscenza tutte personali. Certamente, l’incontro con Piero Rattalino, mio maestro al Conservatorio di Milano, fu fondamentale per garantirmi un’autonomia di pensiero riguardo alla storia dell’interpretazione musicale, questa nuova disciplina nata con la registrazione sonora. Da lui ho ricevuto una rigorosa formazione accademica ma anche gli strumenti per esprimere al meglio e in libertà il mio “mondo” attraverso un particolare e personale stile di esecuzione. Determinante per ampliare le mie esperienze musicali è stato anche l’incontro, presso l’Accademia Pianistica di Imola “Incontri col Maestro”, con Lazar Berman e Franco Scala.




Ci sono state altre influenze importanti?
Indubbiamente: tra quelli che considero maestri, non posso non annoverare anche figure storiche, come, ad esempio, musicisti che non ho mai incontrato personalmente ma conosciuto grazie a registrazioni discografiche o anche figure che hanno lasciato poche ma fondamentali tracce di sé, quasi una sorta di immenso bagaglio musicale trasmessomi. In particolare, penso a Vladimir Delman, un “vulcano” musicale, ispiratore e co-fondatore, tra l’altro, dell’Orchestra Sinfonica Verdi di Milano: diretto da lui, quando ero allievo del Conservatorio, eseguii la Fantasia op.80 di Beethoven. Non dimenticherò mai il modo unico e particolare con il quale plasmava letteralmente la materia sonora, creando la musica come dal nulla.

A soli 24 anni hai vinto la Gold Medal e il Premio di musica da camera alla IX edizione del Concorso “Van Cliburn” in Texas. Che ricordi hai di quell’esperienza?
È stato, indubbiamente, un passaggio fondamentale del mio percorso musicale: grazie a questo Concorso ho potuto non solo intraprendere un’attività concertistica internazionale ma anche incontrare celebri direttori d’orchestra. Tra le tante esperienze, successive a quella vittoria, ricordo, soprattutto, l’incontro con Riccardo Chailly che mi volle per eseguire il poco frequentato Concerto in re minore di Martucci, ma anche quellli con Roberto Abbado e Zubin Mehta.  Molto bella e positiva è stata l’esperienza con Gianandrea Noseda, un direttore con il quale mi sono trovato in una totale e assoluta comunanza di intenti. Un’altra collaborazione che ha lasciato il segno è stata quella con Stanislav Skrowaczewsky, con il quale ho eseguito il Concerto di Schumann: un grandissimo direttore e un uomo delizioso. Ogni incontro, però, è fondamentale: da ognuno imparo e ricevo, tuttora, cose inaspettate che mi arricchiscono.



Come si svolge una tua giornata quando non sei in tournée?
Quando sono a casa, la giornata inizia sempre con la preghiera (Ufficio delle ore di san Benedetto) che in qualche modo orienta le mie azioni e la mia vita in una dimensione molto realistica di affidamento prima di tutto a Dio e non solo a me stesso e alle mie capacità. Cerco il più possibile di non vivere una vita schizofrenica e di non separare gli ambiti dell’umana esistenza, la vita di coppia con mia moglie Elisa, la vita di fede, l’amicizia, la musica, gli incontri con i cantori della mia Schola Gregoriana e tutte le occasioni che mi vengono offerte nel quotidiano. Anche l’incontro con i grandi compositori che ho l’onore, la responsabilità ma anche la gioia di eseguire, avviene con grande semplicità, aprendo ogni volta con stupore lo spartito e cercando di donargli la vita col suono. Sono emozioni vissute, sempre, come nuove e antiche allo stesso tempo.

Come superi la routine generata dall’eseguire per l’ennesima volta la stessa composizione?
Non ho mai avvertito questo problema perché ho sempre vissuto ogni singolo concerto – che fosse alla Carnegie Hall o in uno sperduto paesino in Norvegia con tre sole persone tra il pubblico – allo stesso modo. Salire sul palco è, ogni volta, un pezzo reale di vita, un’emozione unica, un “immolarsi”, quasi, per l’amore della musica, di se stessi e degli altri.




Nel 2011 hai eseguito, in prima assoluta, il Concerto per pianoforte e orchestra di Luis Bacalov, scritto dal compositore appositamente per te…
Ho vissuto quello che pochi artisti hanno avuto il privilegio di sperimentare: non si può descrivere adeguatamente a parole, l’emozione di ricevere il primo movimento di una musica scritta da un grande compositore che nessuno, se non tu e lui, ha ancora ascoltato; scoprire, poi, dopo la sorpresa, la gioia nel constatare che è anche “bella musica”, cosa non scontata, studiarla, amarla, farla propria e poi eseguirla con l’autore sul podio. Tutto ciò ha rappresentato la conferma, per certi versi paradossale, che le cose più grandi a volte sono anche le più semplici e sono fatte di piccoli passi quasi invisibili,  compiuti in una solitudine che è solo apparente, perché il suono, la musica senza il silenzio sarebbero nulla, non esisterebbero neppure.



Come affronti i momenti di difficoltà, soprattutto in ambito professionale?
Come tanti miei colleghi sperimento il calo del numero dei concerti ma affronto questa prova senza disperarmi: ricordo, invece, con grande emozione l’incontro con il grande Carlo Maria Giulini a casa sua. Lo avevo chiamato per chiedergli di ascoltarmi e lui, che tra l’altro rispondeva sempre personalmente al telefono, mi invitò nel suo studio in via Ciovasso: invece di suonare, parlammo a lungo. Mi mostrò la copia anastatica della Jupiter di Mozart facendomi constatare che c’erano solo un paio di correzioni e, dopo avergli parlato di me e della mia vita, mi disse una frase che non dimenticherò mai e che conservo per i giorni più difficili che ciascuno di noi vive: “Non si preoccupi per il futuro: lei ha tutto ciò che le serve, la fede, le doti e l’amore!”. Si può desiderare di più?

Adriana Benignetti