Accade
spesso che in merito alla qualità e ai pregi di un’esecuzione musicale si
manifesti una profonda divergenza d’impressioni tra l’intenditore e il profano,
o meglio il semplice appassionato di musica, e che là dove quello non ha
provato che fastidio e rammarico per una perfida manomissione dell’opera
eseguita, quest’ultimo si entusiasmi e provi il brivido sacro d’una reale
emozione estetica.
Donde il suo sbigottito sconforto quando apprende d’essersi
tanto commosso per una manifestazione da cui era ben lontana la presenza
perfetta dell’arte, e il conseguente dubbio che s’insinua, nei più perspicaci e
più portati a ragionare coerentemente le proprie impressioni, sulla realtà
stessa dell’opera d’arte musicale. Che rimane, infatti, dell’esistenza concreta
di una sinfonia di Beethoven, se la sua esecuzione può dar luogo a tanta disparità,
anzi, antiteticità di opinioni, e quel che è peggio, di genuine e sincere
impressioni?
Dubbio
serio, che del resto si è presentato più volte alla mente di coloro che hanno
ragionato sulla musica, favorito dalla particolare condizione sociale di quest’arte
che, unica insieme al teatro, richiede l’intermediario di uno o più interpreti,
fra l’opera d’arte e chi ne vuol godere. Sicché ci si comincia a domandare dove
fisicamente sia l’opera d’arte musicale: certamente non consiste materialmente
in quei segni neri affidati al pentagramma. Dunque la musica esiste,
fisicamente, soltanto nell’esecuzione: non la carta stampata, ma il suono ne è
il luogo fisico, e dalla carta stampata al suono non si passa generalmente
senza mediazione dell’interprete, dell’esecutore. Ora, se avviene che la stessa
esecuzione che a un ascoltatore permette di godere dell’opera d’arte con piena
soddisfazione, a un altro pare invece perfida e siluratrice, e si pone come un
diaframma, come un ostacolo tra l’ascoltatore e l’opera d’arte eseguita, dove
va a finire la realtà intrinseca di quest’opera d’arte che evidentemente
dovrebbe avere una validità universale?
Il
sospetto sulla relatività della musica è alimentato proprio da questa sua
particolare condizione di non esistere se non attuata nell’esecuzione di un
interprete, e dalla disparità di giudizi, anzi, di genuine impressioni che una
medesima esecuzione può produrre.
Ma
questa disparità si arresta lì, sull’esecuzione, e non ha presa sulla realtà
dell’opera stessa.
Infatti
la diversità d’impressioni di fronte a una medesima esecuzione dipende da
quella che si suol chiamare la «competenza» dell’ascoltatore, ossia dalla
maggiore o minore conoscenza dell’opera eseguita; dipende dal minore o maggiore
bisogno che si abbia dell’opera dell’interprete per venire a contatto con la
musica. Il cosiddetto «incompetente», cioè colui che conosce poco una
determinata sinfonia di Beethoven, perché ne ha sentito poche esecuzioni, e
perché non ha mai avuto l’occasione o la capacità di leggerne la partitura o di
suonarsela al pianoforte, deve affidarsi interamente all’opera dell’interprete per
venire, in un modo qualsiasi, a conoscenza della concezione di Beethoven, per
averne la rivelazione. L’opera dell’interprete gli è assolutamente necessaria,
senza di che la sinfonia in questione resterebbe per lui lettera morta. Perciò,
anche se l’esecuzione sarà largamente difettosa, è chiaro che in confronto al
niente assoluto delle sue precedenti cognizioni, essa rappresenterà per l’ascoltatore
cosiddetto incompetente un potente ausilio, uno strumento indispensabile per entrare
in contatto con la realtà fisica di quella sinfonia di Beethoven e compierne
poi la propria «interpretazione». Per mettere la cosa in termini di grossolana
e ridicola evidenza numerica: se l’esecuzione di quell’interprete si discosta
dall’autentica realtà della concezione artistica beethoveniana in una misura,
diciamo, del trenta per cento, l’ascoltatore per il quale la sinfonia di
Beethoven non esisteva affatto senza l’esecuzione, avrà sempre la rivelazione
di quel settanta per cento che in tale sciagurata esecuzione si è salvato: e si
capisce che è sempre tal cosa da produrre in un animo sensibile alla musica il
più sincero e giustificato entusiasmo.
Invece
il cosiddetto competente non ha bisogno dell’esecuzione per ricondursi alla
mente una determinata sinfonia di Beethoven: l’ha sentita decine, forse
centinaia di volte; l’ha studiata al pianoforte; ne ha analizzata la partitura.
La sinfonia gli si configura per intero nella memoria, egli sa come si
allacciano e come si sviluppano i temi, sa come suonano gli strumenti, ricorda
ogni minimo effetto. In una cattiva esecuzione egli non può quindi badare a
quel settanta per cento dell’opera che pure vi si salva: fatalmente egli non
avrà orecchi che per quel trenta per cento che l’interprete maldestro ha
sciupato e distrutto; e la mancanza di questo trenta per cento gli impedisce di
ritrovare la sinfonia di Beethoven, ch’egli possiede per interno nella sua
memoria, senza bisogno dell’aiuto di nessuna esecuzione. Perciò avviene che la
genuina emozione estetica, il brivido del contatto con l’opera d’arte, l’incompetente
lo possa ricevere anche da esecuzioni mediocri; mentre al competente non sarà
più concesso che in circostanze estremamente favorevoli, in esecuzioni che per
lo meno pareggino la sua conoscenza di quella determinata opera d’arte. Senza
che la realtà di quest’ultima venga per questo minimamente compromessa e tirata
nei gorghi di una pericolosa relatività.
So
bene che ragionare per analogie è per lo più un’illusione. Tuttavia può servire
se non altro per dare un’evidenza, una corpulenza fantastica a un ragionamento
già fatto in termini propri. Supponiamo il caso di due studiosi di storia dell’arte,
uno dei quali viva a Firenze – anzi, poniamo che sia il direttore della
Galleria degli Uffizi e che tutti i giorni la debba attraversare per recarsi
nel suo ufficio –; l’altro, invece, supponiamo viva in Nuova Zelanda, sia un
distinto professore dell’Università di Wellington. Ora immaginiamo la posizione
e le reazioni di questi due individui di fronte a una buona riproduzione a
colori, un’artistica quadricromia della Venere
di Botticelli.
Il
professore italiano vede tutti i giorni l’originale, mentre attraversa la
Galleria degli Uffizi per recarsi al lavoro: è facile se ne che, della
riproduzione a colori, per quanto bene essa sia eseguita, gli salteranno subito
all’occhio tutti i difetti, tutte le piccole infedeltà, tutte le divergenze
dall’originale. Questo cartoncino colorato, che avrà magari i medesimi colori
del quadro, o quasi, ma non ne ha più la pasta, la sostanza, le dimensioni, non
sarà per lui un aiuto a ricordare, e tanto meno a comprendere e a gustare il
quadro: al contrario, sarà un impaccio intollerabile, una doccia fredda; egli
se ne distoglierà con impazienza e dispetto, perché quest’immagine deformata
non guasti la perfetta realtà dell’opera d’arte ch’egli porta in sé.
Prendiamo
ora il professore neozelandese: lui, poverino, l’originale del Botticelli l’ha
visto una sola volta, quando fece il suo univo viaggio in Europa, da giovane,
con una borsa di studio. Allora ci si era fermato davanti molte ore, l’aveva
silenziosamente assimilato attraverso la vista. Ma da allora son passati tanti
anni: la memoria svanisce, i particolari sfuggono, resta il ricordo di quella
meravigliosa emozione, ma la sostanza ne è dileguata. Nella riproduzione in
quadricromia il nostro neozelandese non percepisce prima di tutto i difetti:
essa costituisce per lui un potente ausilio a rimemorarsi la realtà del quadro
vero e a rinnovarne in sé l’esperienza estetica.
Nella
stessa situazione di questi due ipotetici personaggi rispetto alla riproduzione
a colori della Venere di Botticelli
si trovano gli ascoltatori d’una cattiva esecuzione beethoveniana, a seconda
che conoscano molto o poco la sinfonia eseguita.
(1949)
Testo
tratto da: Massimo Mila, L’esperienza musicale e l’estetica,
Torino, Einaudi, 2001 (1a edizione 1950), pp. 173-176
Massimo Mila (Torino, 14 agosto 1910 – Ivi, 26 dicembre 1988) è
stato professore incaricato nell'Università di Torino, dove fondò l'Istituto di
Storia della Musica. Bocciato nel concorso nazionale per titoli a una cattedra
ordinaria, fu accademico di Santa Cecilia e accademico delle Scienze. Nel 1986
ottenne il Premio internazionale dei Lincei per la critica e la poesia.
Collaboratore di riviste e giornali, è stato critico musicale de «La Stampa».
Presso Einaudi ha pubblicato: L'esperienza musicale e l'estetica (1950
e 2001), Gli eroi del Chomolungma (1954), Cronache musicali 1955-1959 (1959), Breve storia della musica (1963), Maderna musicista europeo (1976), Lettura della Nona Sinfonia (1977), Lettura delle «Nozze di Figaro» (1979),L'arte di Verdi (1980), Compagno Strawinsky (1983), Lettura del Don Giovanni di Mozart (1988), Lettura del Flauto magico (1989), Scritti di montagna (1992), Brahms e Wagner (1994), Scritti civili (1995), L'arte di Béla Bartók, Guillaume Dufay (1997), Argomenti strettamente famigliari: Lettere dal carcere
1935-1940 (1999), Mozart. Saggi 1941-1987 (2006), I quartetti di Mozart (2009) e Le sinfonie di Mozart.
A.B.