13 dicembre 2012

La "Petite Messe solennelle" di Rossini in Cattedrale a Cagliari


Venerdì 14 dicembre alle ore 19.30 il capolavoro di Rossini nella suggestiva cornice della Cattedrale di Santa Maria di Cagliari, con il Coro del Teatro Lirico diretto da Marco Faelli



È uno dei capolavori assoluti della letteratura sacra ottocentesca, la Petite Messe solennelle per soli, coro due pianoforti e harmonium di Gioachino Rossini (Pesaro, 1792 - Parigi, 1868): appuntamento imperdibile, dunque, per il pubblico cagliaritano che avrà l’opportunità, venerdì 14 dicembre alle 19.30, di ascoltarlo nella suggestiva cornice della Cattedrale di Santa Maria di Cagliari. Protagonista il  Coro del Teatro Lirico, diretto da Marco Faelli, con i solisti:  Graziella Ortu, soprano, Irene Macutan, mezzosoprano, Oscar Piras, tenore, e Alessandro Frabotta, basso. L’accompagnamento musicale è affidato ad Andrea Mudu e Francesca Pittau (pianoforti) e a Gaetano Mastroiaco (harmonium).

L'ingresso alla manifestazione, della durata di un’ora e trenta minuti circa, è libero.



Per informazioni: Ufficio Territorio, telefono +39 0704082250 - +39 0704082252; Biglietteria del Teatro Lirico, via Sant’Alenixedda, 09128 Cagliari, dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 13 e dalle 17 alle 20, il sabato dalle 10 alle 13 e nell’ora precedente lo spettacolo, telefono +39 0704082230 - +39 0704082249, fax +39 0704082223, biglietteria@teatroliricodicagliari.it, www.teatroliricodicagliari.it.




Petite Messe solennelle: religiosità domestica e solennità liturgica
guida all’ascolto a cura di Marco Faelli

Il 13 marzo del 1864, in un salone del palazzo della Contessa Louise Pillet Will, a Parigi, viene presentata, ad uno scelto pubblico di invitati, la Petite Messe solennelle. La composizione non è destinata ad un uso liturgico (il pianoforte non è adatto all’acustica di una chiesa), ma ad un ambiente più intimo, domestico. L’organico è quindi essenziale (da qui l’aggettivo Petite, mentre Solennelle indica che tutto il testo è musicato, compreso il Credo). Scrive Rossini nella partitura autografa: «Douze chanteurs de trois sexes Hommes, Femme et Castres seront suffisants pour sono execution, savoir huit pour les choeurs, quatre pour les solos, total Douze Cherubins»; a questi si aggiungeva il sostegno strumentale di due pianoforti e di un harmonium. Nonostante il desiderio di Rossini (sappiamo quanto rimpiangesse la ormai inevitabile scomparsa dei castrati), il “terzo sesso” non prese parte all’esecuzione: i ruoli femminili vennero infatti sostenuti dalle sorelle Barbara e Carlotta Marchisio, mentre il tenore era Italo Gardoni (primo interprete, tra l’altro, dei Masnadieri di Verdi), e il basso Louis Agniez. Il coro era costituito da studenti del Conservatorio di Parigi, scelti personalmente da Auber, e diretti (alle spalle dei solisti e con tanto di bacchetta) dal maestro Choen. Per la cronaca, al primo pianoforte sedeva un allievo di Chopin, Georges Mathias. La primitiva versione della Petite Messe venne eseguita solo tre volte durante la vita dell’autore: dopo la sua morte entrò in circolazione una versione orchestrale (in cui le parti solistiche e quelle corali rimangono identiche), strumentata dall’autore stesso, anche se malvolentieri. In questa veste venne eseguita, con un grande organico corale, al Théatre des Italiens di Parigi, il 24 febbraio 1869, ed entrò rapidamente in circolazione, con repliche a Bologna (sotto la direzione dell’allievo di Verdi, Muzio), a Torino, alla Scala, in Svizzera, Francia, Russia, Germania, e perfino in Australia! Considerata un capolavoro di musica sacra, nel 1874 costituisce il metro di confronto per la prima grande composizione sacra di Verdi, il Requiem. Nonostante l’organico “ipercameristico” della prima versione (dovuto, in parte, anche a ragioni acustiche), la scrittura dei cori non presenta atteggiamenti solistici di stampo neomadrigalistico, ma assume caratteristiche squisitamente “corali”, come risulta evidente dalla struttura delle fughe, dagli interventi di stampo operistico del Credo, dagli impasti fonici del Sanctus (lo stesso Rossini parla di “Choeurs”). È quindi legittimo considerare la Petite Messe uno dei più grandi capolavori corali della musica sacra, che ogni direttore di coro deve possedere nel proprio repertorio. Affrontare la Petite Messe solennelle dal punto di vista interpretativo significa, innanzitutto, confrontarsi con i problemi determinati dall’eterogeneità e dall’ambiguità di fondo che la contraddistinguono: infatti, come si può cogliere da un’analisi globale, l’intera composizione oscilla tra momenti assai contrastanti per stile, tecnica costruttiva e carattere espressivo. Quando ci si pone di fronte ad un testo che presenta una consistente disomogeneità e si propende per una lettura di tipo sintetico, che cioè da un’idea generale dell’opera tragga un’unica prospettiva interpretativa, si rischia di interpretare il testo in modo un po’ troppo settoriale, valorizzando estremamente alcuni spunti e trascurandone altri: alcune esecuzioni del capolavoro rossiniano, pur pregevolmente realizzate, ma non pienamente soddisfacenti, hanno probabilmente alla base una lettura eccessivamente sintetica, che riconduce, in modo un po’ forzato, l’eterogeneità ad un’unica chiave di lettura. La Petite Messe è proprio un emblematico esempio di opera che richiede una lettura assolutamente analitica, dove l’interpretazione non sia intuita “a priori”, ma derivi “empiricamente” ed in modo induttivo dalla messa a fuoco delle singole componenti. Esaminando sommariamente le varie sezioni della Messa, possiamo schematizzane le caratteristiche strutturali ed espressive in questo modo:

Kyrie eleison
Kyrie: Struttura binaria, andamento di lied corale con canone nella parte iniziale, accompagnamento ritmico ostinato, carattere espressivo enigmatico, interesse armonico.
Christe: Struttura polifonica classica imitata “a cappella”, con due spunti tematici doppi e uno semplice; dolcissimo, immateriale.
Kyrie: vedi 1° Kyrie, più piccola elaborazione.

Gloria
Introduzione: Formule operistiche.
Laudamus Te: Sezione bipartita affidata al quartetto solistico, su movimento armonico ostinato (prima parte omoritmica, seconda parte imitata); clima dimesso e devoto, quasi un “presepio”.
Gratis agimus: Terzetto solistico con struttura A1 A2 A3 A4, interesse prevalentemente melodico; lirico e fluente.
Domine Deus: Tipica aria operistica tenorile di stampo eroico, con impianto ternario e sezione centrale elaborata.
Qui tollis: Duetto soprano-contralto; struttura ABA’C, accompagnamento arpeggiato, prevalente andamento delle voci per terze, melodia ampia, mesta, solenne.
Quoniam: Aria solistica del basso, piuttosto vicina a formule d’opera comica. Struttura ABCD B’BCD B’B; accompagnamento vivacemente ritmico; solenne, decisa, affermativa.
Cum Sancto Spiritu: Fuga corale a tre spunti tematici. Struttura: esposizione, 1° divertimento, soggetto al IV grado, 2° divertimento con lungo passo accordale, stretto, 3° divertimento, coda. Impianto polifonico settecentesco, carattere estremamente festoso,.

Credo
Credo: Coro e solisti; struttura A B1 B2 / A B1 B2 / A B1 B2 C / A B1*. Accostamento di sezioni di tematica contrastante; ritmo vivace, effetto monumentale, momenti di grande tenerezza.
Crucifixus: Aria solistica del soprano su accompagnamento uniforme e con utilizzo di pochissimi e semplici spunti tematici; interesse armonico, espressività dimessa e dolente.
Et resurrexit: Struttura: A’ B1* B2 D C B1* / B1* B2 A D C A. Accentuazione del carattere grandioso rispetto alla prima parte del Credo.
Et vitam: Fuga corale di impianto tradizionale a tre spunti tematici (esposizione, 1° divertimento, risposta al IV grado, 2° divertimento con pedale di dominante, stretti, 3° divertimento, coda); serena e festosa.

Preludio religioso: pagina pianistica di carattere colloquiale, di struttura A1 A2 B, con interessante contrappunto.

Sanctus: brano “a cappella” per coro e solisti. Struttura ABCD BCDD, con sezioni ora accordali, ora imitate, ora melodiche; dolce, intimo, pastorale.

O salutaris: Aria solistica e di prevalente interesse melodico, affidata al soprano; struttura: ABC ADB’C’D’; carattere sereno e luminoso.

Agnus Dei: Aria tripartita del contralto su accompagnamento di semicrome ribattute, con interventi corali “a cappella”; grandissimo effetto drammatico e teatrale.

Nel “progetto esecutivo” di una pagina che preveda un largo impiego del coro, il primo problema da risolvere riguarda i valori da assegnare al parametro timbrico: mentre una composizione strumentale ha caratteristiche timbriche piuttosto definite e si possono ottenere colori diversi solo giocando con gli equilibri dinamici dei piani sonori, un brano corale presenta una gamma di possibilità ben superiore. La voce umana, infatti, ha la capacità di esprimersi in un’infinità di gradazioni timbriche, piuttosto sottili e difficili da definire: si può dire che quasi il cinquanta per cento del “messaggio estetico” di una composizione corale viene prodotto dagli aspetti fonici, dal colore del coro e dalle sue molteplici sfumature. Compito fondamentale del direttore di coro è proprio la cura della vocalità, intesa come mezzo per ottenere quelle timbrature, quei valori cromatici senza i quali un coro non esprime che una piccola parte delle sue potenzialità. La ricerca della giusta dimensione fonica non è per nulla facile, in quanto, tra tutti i parametri musicali, il timbro è sicuramente il più indefinito: per il maestro di coro assume quindi importanza fondamentale la capacità di percezione interna del dato sonoro (il cosiddetto “orecchio interno”), che dà la possibilità di avere un riferimento chiaro e sicuro con cui confrontare l’ascolto diretto in sede di prova. Nel caso della Petite Messe ogni brano, per le sue caratteristiche formali, ha la necessità di essere contraddistinto da una ricerca timbrica particolare, nell’ambito di una tendenza generale alle sonorità “chiare”, trasparenti. Se il coro che affronta questa composizione è specializzato nel settore lirico-sinfonico (è il caso di quasi tutti i cori professionali italiani), non è facile ottenere immediatamente la necessaria adesione stilistica: mentre nelle produzioni liriche, infatti, si richiedono forte presenza sonora, colore scuro e caldo, timbratura rilevante, vibrato, nel genere cameristico si preferiscono tinte diverse, molto più sfumate e tenui, realizzate attraverso un’emissione più leggera, che sfrutta meno le risonanze pettorali e più quelle “di testa. Quando poi, come nel caso della Petite Messe, si incontrano sezioni riconducibili alla polifonia classica o al genere fugato, una particolare emissione è richiesta non solo dalla necessità di aderire allo stile (concetto, come si è già detto, un po’ ambiguo), ma ancor più dall’esigenza di ottenere, attraverso una timbratura asciutta ed essenziale, la necessaria trasparenza delle parti. Non dimentichiamo, poi, che in alcuni brani sonorità e colori dovranno allontanarsi in qualche misura dall’ambito strettamente cameristico, in quanto si tratta di veri e propri momenti operistici (il Credo, ad esempio). Questo comporta, quindi, l’esigenza per il coro, di utilizzare, nella stessa composizione, sistemi di emissione piuttosto diversi. La Petite Messe, si è detto, è notevolmente eterogenea: dall’introduzione del Kyrie al finale dell’Agnus Dei l’excursus emotivo è notevole, ed è difficile riuscire a riprodurlo in modo convincente, senza cadere in una retorica eccessiva ed in effetti priva della misura necessaria per un testo di questi tipo, scritto sì in pieno Romanticismo, ma da un autore che ne ha sostanzialmente rifiutato l’estetica. Inoltre, la struttura dei singoli momenti di questa Messa è basata prevalentemente su accostamenti e ripetizioni di sezioni (si osservi il Credo, in cui ritornano, periodicamente, alcuni elementi base); frequenti sono poi le progressioni, in cui lo stesso materiale è ripetuto più volte. Queste procedure compositive possono comportare il rischio di una certa monotonia, qualora un’approfondita visione interpretativa non consenta di realizzare i giusti contrasti. La Petite Messe inizia “in punta di piedi”, con un’introduzione strumentale che crea un clima di mistero e di suspense, ma che contemporaneamente produce, con un sottile ritmo che si articolerà per tutto il Kyrie, una sensazione di leggerezza e di mobilità quasi festosa, con qualche lievissima componente “umoristica” che rende il carattere del brano enigmatico, difficilmente decifrabile; l’atmosfera è turbata da momenti di imprevista drammaticità, nelle invocazioni improvvise e intense (Eleison, a battuta 19, ad esempio), subito cancellati dalle frasi dolcissime che seguono. Sarebbe un grave errore considerare questa sezione come un passo uniforme, esclusivamente dolce, espressivo, sentimentale: esiste una mobilità interna di stati d’animo, che può fornire all’interprete spunti stimolanti, e che si deve seguire e sottolineare. La suggestione più intensa del Kyrie è comunque offerta dall’inclusione al suo interno di un momento di estrema dolcezza, un breve ma stupendo brano “a cappella”, (Christe eleison), squisitamente classico, quasi l’affiorare di un ricordo lontano, impregnato di misticismo. L’atmosfera non ben definita del Kyrie viene rotta dalla proclamazione del Gloria, quanto mai perentorio ed estroverso, a cui non si dovrà aver timore di conferire forza e grandiosità. Ma questa “apertura dei cieli” ci viene offerta per un attimo soltanto, e l’attenzione ritorna all’uomo (et in terra pax hominibus), con un delizioso quadretto natalizio, sereno ma dimesso nella sua profonda devozione: la staticità armonica che lo contraddistingue contribuisce a creare quell’idea di immobilità che fa pensare alla statuarietà ed alla semplicità della scena di un presepio. Semplicità quasi francescana è la cifra interpretativa di questo passo. Molto più deciso il terzetto che segue, chiaramente lirico e fluente, a tratti solenne, nella proclamazione: Propter magnam gloriam tuam! Il tema della gloria viene ripreso senza reticenza nella celebre (ed assai impegnativa) pagina del tenore solo (Domine Deus), in cui la regalità guerriera del Dio degli eserciti che celebrano i salmi si stempera in un clima di familiare dolcezza ogni qual volta viene nominato il Figlio unigenito. Questo contrasto, se viene sottolineato con convinzione, rende la pagina uno dei momenti più felici ed efficaci della Messa. Da un canto energico, articolato, eroico si dovrà quindi cedere ad un’espressione lirica, intima, con fraseggio legato e sonorità più tenui, per prorompere finalmente nella grandiosa invocazione conclusiva, che si può definire (intendendo il termine nella sua accezione migliore) decisamente trionfalistica. Il duetto seguente (Qui tollis peccata mundi), dolce ma teneramente mesto, immobile nella fissità delle forme di accompagnamento, non può non far pensare alla statica situazione dell’uomo, oppresso dal peso della colpa: a tratti (battuta 383 e segg.) l’invocazione tende a diventare drammatica come in alcuni passi del Kyrie, ma il clima di fondo è comunque fiducioso e sereno, e si risolve nella sezione di chiusa, in cui l’approdo alla tonalità maggiore esprime sicurezza e stabilità. Il clima trionfalistico già incontrato nell’aria del tenore viene ripreso in quella del basso (Quondam Tu solus Sanctus), composto con formule piuttosto vicine agli stilemi dell’opera buffa. È interessante osservare (e forse non è un caso) che alla fine dell’aria la proclamazione Tu solus Altissimus, Jesu Christe si ripete per tre volte, come per tre volte si ripete la professione di Pietro a Cesarea. Il carattere immediato e la forte carica emotiva di quest’aria sono, in effetti, quanto mai vicine proprio all’immagine psicologica che i sinottici danno della fede del primo degli Apostoli. Il Gloria si chiude, quindi, con una fuga stupenda (e assai difficile tecnicamente), con tre elementi tematici e impianto prevalentemente tradizionale, ma con un lungo passo accordale cromatico e modulante, tipico invece delle fughe di epoca romantica, che offre un efficace momento di contrasto. Il carattere della fuga è festoso, vivissimo, in alcuni momenti quasi frenetico, soprattutto grazie al ritmo mobilissimo ed alle agilità ai limiti delle possibilità esecutive di un coro, che si alternano in tutte le parti, e soprattutto nel rigo dei soprani. Questo clima di esaltazione, che nel finale diviene addirittura travolgente, è calato in una costruzione architettonica grandiosa per proporzioni e per respiro, e che si colloca al centro ideale di tutta la Messa. È difficile riuscire a realizzare in modo convincente questa fuga, oltre che per le rilevanti difficoltà tecniche, principalmente per il suo carattere ibrido: da una parte l’autore opta per una costruzione formale elegante e misurata, dall’altra vi introduce spinte emotive assai forti, che possono rischiare di turbare la compostezza dell’insieme. E, in effetti, gran parte della Petite Messe oscilla fra la volontà di ripristinare moduli classici, valorizzando il discorso formale, e l’esigenza di dare spazio all’emotività (sia essa intesa in senso sentimentale e intimistico, o entusiastico e grandioso, o prepotentemente drammatico). In questi casi, è difficile per l’interprete trovare un giusto equilibrio tra valori formali ed emotivi: in un testo che ha valenze contrastanti si è infatti portati ad accentuare gli aspetti a noi più congeniali e a perdere un po’ di vista gli altri. D’altra parte, è pur vero che la settorialità di prospettiva è, in qualche modo, indice del valore di un’interpretazione, e consente di cogliere la personalità dell’interprete: non esiste un unico modo “corretto” di leggere un testo, e anche gli stessi fraintendimenti possono rivelare una propria suggestione. L’essenziale è che il testo stimoli nell’interprete risposte che dipendono, comunque, dalla sua situazione soggettiva e che, in un certo senso, sono tutte corrette e tutte discutibili; l’ascoltatore, a sua volta, reagirà a quanto l’interprete ha rielaborato sulla base delle proprie capacità di percezione e del proprio stato emotivo. Queste dinamiche interpersonali sono, in ultima analisi, il senso dell’esecuzione musicale, che acquista così aspetti ogni volta nuovi e imprevedibili e che dovrebbe rappresentare, per l’ascoltatore, un’occasione di introspezione più che un momento di freddo giudizio critico. Imponente costruzione è pure il Credo, realizzata, però, con semplicità di linee ed economia di materiali: tutta la struttura, infatti, è ottenuta impiegando quattro diversi segmenti, che si alternano in vario ordine, ed introducendo periodicamente la formula Credo, proclamata con vigore da tutto il coro, utilizzato qui come un solido pilastro strutturale. La chiarezza concettuale (essenziale in ogni professione di fede) prevale giustamente sulla complessità della costruzione formale; notevole è, comunque, lo spazio concesso al lirismo ed alla poesia intima, delicatissima (pensiamo al momento in cui il quartetto solistico, sottovoce e con emozione, ricorda il mistero dell’incarnazione di Cristo [“Et incarnatus est”, battuta 108]). E di grande dolcezza, mesta e rassegnata, è l’inserto solistico del soprano (Crucifixus), pacatamente doloroso, che si chiude con il riferimento alla sepoltura (et sepultus est) quasi con una dissoluzione della musica e del canto, come se, con la morte di Cristo, nulla avesse più senso. Qui il soprano dovrà rinunciare ad ogni tentazione di effetto vocalistico, quasi all’espressione stessa, lasciando scorrere il canto in un’atteggiamento inerte, rassegnato, privo di qualunque slancio. Ancora più efficace risulterà quindi la vera e propria esplosione sonora che annuncia la Resurrezione: da qui infatti il discorso corale riprende e si sviluppa con entusiasmo crescente e rinnovato vigore. Il Credo termina con una seconda fuga, di dimensioni inferiori, ma piuttosto simile alla prima, questa pure con tre spunti tematici (non facili da far risaltare nell’intreccio delle voci), ma di carattere più sereno e composto, con una “coda” che si snoda in melismi sovrapposti e che propone anch’essa, alla fine, formule cadenzali di stampo decisamente operistico. Un momento di alleggerimento, preceduto da una breve drammatica introduzione, è affidato al pianoforte solo (o all’harmonium, ad libitum): è un commento colloquiale, sapientemente contrappuntato, in bilico tra intimismo romantico e scienza costruttiva bachiana, che si colloca all’Offertorio che, nella Petite Messe, non prevede l’impiego delle voci. Tipico del gusto musicale liturgico ottocentesco è, in effetti, il sottofondo strumentale nei momenti fondamentali della celebrazione, realizzato con l’organo o con l’harmonium. Questo strumento, assai diffuso nella musica liturgica del secondo Ottocento, ha un particolare timbro sentimentale e un carattere meno grandioso dell’organo, più semplice, più quotidiano: molto significativo quindi il suo impiego nella Petite Messe, dove Rossini sembra spesso cercare un rapporto semplice, quasi cordiale con il “Buon Dio” (ricordiamo che questo capolavoro venne concepito non per l’uso liturgico, ma per una più intima destinazione familiare). Nel Sanctus il coro, qui senza sostegno strumentale, propone una pagina dolcissime ed allo stesso tempo intensa. Nessun trionfalismo: prevale piuttosto un andamento ternario di pastorale, carezzevole e sinuoso, morbidamente sussurrato in una ricerca timbrica che punterà sulla morbidezza e sulla rotondità, mentre il fraseggio dovrà essere particolarmente legato e fluente, e l’espressione densa di misticismo. Al Sanctus segue quello che viene spontaneo definire il “largo alla Comunione” (O salutaris Hostia), che rappresenta il momento di maggiore apertura lirica della Petite Messe, dove il canto del soprano si espande con eleganza snodandosi in belle progressioni, che ora si slanciano verso l’altro, ora si riavvolgono su loro stesse. È una pagina serena, di grande freschezza, luminosa e solare dove l’interprete può esprimere liberamente le proprie doti vocali. La Messa si chiude con l’Agnus Dei, un brano di altissimo valore, ricchissimo di significati espressivi, oscillante tra la dolcezza triste e commossa e la drammaticità più cupa e intensa (di matrice operistica), alla triplice invocazione del contralto (Miserere nobis!) fa seguito un delicatissimo richiamo corale alla pace. L’accompagnamento in semicrome ribattute conferisce un carattere ansioso a tutto l’Agnus Dei, che chiude con un effetto di grande potenza una composizione che, per l’importanza della componente sentimentale e per la sapiente architettura, si presta perfettamente a tradurre in termini musicali la religiosità cattolica dell’Ottocento.