Venerdì
14 dicembre alle ore 19.30 il capolavoro di Rossini nella suggestiva cornice
della Cattedrale di Santa Maria di Cagliari, con il Coro del Teatro Lirico
diretto da Marco Faelli
È uno dei capolavori assoluti della
letteratura sacra ottocentesca, la Petite Messe solennelle per soli, coro due pianoforti e harmonium di Gioachino Rossini
(Pesaro, 1792 - Parigi, 1868): appuntamento imperdibile, dunque, per il pubblico
cagliaritano che avrà l’opportunità, venerdì
14 dicembre alle 19.30, di ascoltarlo nella suggestiva cornice della Cattedrale di Santa Maria di Cagliari. Protagonista il Coro del
Teatro Lirico, diretto da Marco
Faelli, con i solisti: Graziella Ortu, soprano, Irene Macutan, mezzosoprano, Oscar Piras, tenore, e Alessandro Frabotta, basso. L’accompagnamento
musicale è affidato ad Andrea Mudu e
Francesca Pittau (pianoforti) e a Gaetano Mastroiaco (harmonium).
L'ingresso
alla manifestazione, della durata di un’ora e trenta minuti circa, è libero.
Per
informazioni:
Ufficio Territorio, telefono +39
0704082250 - +39 0704082252; Biglietteria del Teatro Lirico, via Sant’Alenixedda, 09128 Cagliari, dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 13 e
dalle 17 alle 20, il sabato dalle 10 alle 13 e
nell’ora precedente lo spettacolo, telefono +39 0704082230 - +39 0704082249,
fax +39 0704082223, biglietteria@teatroliricodicagliari.it, www.teatroliricodicagliari.it.
Petite Messe
solennelle:
religiosità domestica e solennità liturgica
guida all’ascolto a cura di Marco Faelli
Il 13 marzo
del 1864, in
un salone del palazzo della Contessa Louise Pillet Will, a Parigi, viene
presentata, ad uno scelto pubblico di invitati, la Petite
Messe solennelle.
La composizione non è destinata ad un uso liturgico (il pianoforte non è adatto
all’acustica di una chiesa), ma ad un ambiente più intimo, domestico.
L’organico è quindi essenziale (da qui l’aggettivo Petite, mentre Solennelle
indica che tutto il testo è musicato, compreso il Credo). Scrive Rossini nella
partitura autografa: «Douze chanteurs de
trois sexes Hommes, Femme et Castres seront suffisants pour sono execution,
savoir huit pour les choeurs, quatre pour les solos, total Douze Cherubins»;
a questi si aggiungeva il sostegno strumentale di due pianoforti e di un harmonium. Nonostante
il desiderio di Rossini (sappiamo quanto rimpiangesse la ormai inevitabile
scomparsa dei castrati), il “terzo sesso” non prese parte all’esecuzione: i
ruoli femminili vennero infatti sostenuti dalle sorelle Barbara e Carlotta
Marchisio, mentre il tenore era Italo Gardoni (primo interprete, tra l’altro,
dei Masnadieri di Verdi), e il basso
Louis Agniez. Il coro era costituito da studenti del Conservatorio di Parigi,
scelti personalmente da Auber, e diretti (alle spalle dei solisti e con tanto
di bacchetta) dal maestro Choen. Per la cronaca, al primo pianoforte sedeva un
allievo di Chopin, Georges Mathias. La primitiva versione della Petite Messe venne eseguita solo tre
volte durante la vita dell’autore: dopo la sua morte entrò in circolazione una
versione orchestrale (in cui le parti solistiche e quelle corali rimangono
identiche), strumentata dall’autore stesso, anche se malvolentieri. In questa veste
venne eseguita, con un grande organico corale, al Théatre des Italiens di
Parigi, il 24 febbraio 1869, ed entrò rapidamente in circolazione, con repliche
a Bologna (sotto la direzione dell’allievo di Verdi, Muzio), a Torino, alla
Scala, in Svizzera, Francia, Russia, Germania, e perfino in Australia!
Considerata un capolavoro di musica sacra, nel 1874 costituisce il metro di
confronto per la prima grande composizione sacra di Verdi, il Requiem. Nonostante l’organico
“ipercameristico” della prima versione (dovuto, in parte, anche a ragioni
acustiche), la scrittura dei cori non presenta atteggiamenti solistici di
stampo neomadrigalistico, ma assume caratteristiche squisitamente “corali”,
come risulta evidente dalla struttura delle fughe, dagli interventi di stampo
operistico del Credo, dagli impasti
fonici del Sanctus (lo stesso Rossini
parla di “Choeurs”). È quindi legittimo considerare la Petite
Messe uno dei più grandi capolavori corali della musica
sacra, che ogni direttore di coro deve possedere nel proprio repertorio. Affrontare
la Petite Messe
solennelle dal punto di vista interpretativo significa, innanzitutto,
confrontarsi con i problemi determinati dall’eterogeneità e dall’ambiguità di
fondo che la contraddistinguono: infatti, come si può cogliere da un’analisi
globale, l’intera composizione oscilla tra momenti assai contrastanti per
stile, tecnica costruttiva e carattere espressivo. Quando ci si pone di fronte
ad un testo che presenta una consistente disomogeneità e si propende per una
lettura di tipo sintetico, che cioè da un’idea generale dell’opera tragga
un’unica prospettiva interpretativa, si rischia di interpretare il testo in
modo un po’ troppo settoriale, valorizzando estremamente alcuni spunti e
trascurandone altri: alcune esecuzioni del capolavoro rossiniano, pur
pregevolmente realizzate, ma non pienamente soddisfacenti, hanno probabilmente
alla base una lettura eccessivamente sintetica, che riconduce, in modo un po’
forzato, l’eterogeneità ad un’unica chiave di lettura. La Petite Messe è proprio un emblematico esempio di opera che richiede
una lettura assolutamente analitica, dove l’interpretazione non sia intuita “a
priori”, ma derivi “empiricamente” ed in modo induttivo dalla messa a fuoco
delle singole componenti. Esaminando sommariamente le varie sezioni della
Messa, possiamo schematizzane le caratteristiche strutturali ed espressive in
questo modo:
Kyrie
eleison
1° Kyrie: Struttura binaria, andamento di lied corale con canone nella parte
iniziale, accompagnamento ritmico ostinato, carattere espressivo enigmatico,
interesse armonico.
Christe: Struttura polifonica classica
imitata “a cappella”, con due spunti tematici doppi e uno semplice; dolcissimo,
immateriale.
2° Kyrie: vedi 1° Kyrie, più piccola elaborazione.
Gloria
Introduzione: Formule
operistiche.
Laudamus Te: Sezione
bipartita affidata al quartetto solistico, su movimento armonico ostinato
(prima parte omoritmica, seconda parte imitata); clima dimesso e devoto, quasi
un “presepio”.
Gratis agimus: Terzetto
solistico con struttura A1 A2 A3 A4, interesse prevalentemente melodico; lirico
e fluente.
Domine Deus: Tipica
aria operistica tenorile di stampo eroico, con impianto ternario e sezione
centrale elaborata.
Qui tollis: Duetto
soprano-contralto; struttura ABA’C, accompagnamento arpeggiato, prevalente
andamento delle voci per terze, melodia ampia, mesta, solenne.
Quoniam: Aria solistica del basso, piuttosto
vicina a formule d’opera comica. Struttura ABCD B’BCD B’B; accompagnamento
vivacemente ritmico; solenne, decisa, affermativa.
Cum Sancto Spiritu: Fuga
corale a tre spunti tematici. Struttura: esposizione, 1° divertimento, soggetto
al IV grado, 2° divertimento con lungo passo accordale, stretto, 3°
divertimento, coda. Impianto polifonico settecentesco, carattere estremamente
festoso,.
Credo
Credo: Coro e solisti; struttura A B1 B2 /
A B1 B2 / A B1 B2 C / A B1*. Accostamento di sezioni di tematica contrastante;
ritmo vivace, effetto monumentale, momenti di grande tenerezza.
Crucifixus: Aria
solistica del soprano su accompagnamento uniforme e con utilizzo di pochissimi
e semplici spunti tematici; interesse armonico, espressività dimessa e dolente.
Et resurrexit: Struttura:
A’ B1* B2 D C B1* / B1* B2 A D C A. Accentuazione del carattere grandioso
rispetto alla prima parte del Credo.
Et vitam: Fuga
corale di impianto tradizionale a tre spunti tematici (esposizione, 1°
divertimento, risposta al IV grado, 2° divertimento con pedale di dominante,
stretti, 3° divertimento, coda); serena e festosa.
Preludio
religioso: pagina pianistica di carattere colloquiale, di
struttura A1 A2 B, con interessante contrappunto.
Sanctus: brano “a
cappella” per coro e solisti. Struttura ABCD BCDD, con sezioni ora accordali,
ora imitate, ora melodiche; dolce, intimo, pastorale.
O salutaris: Aria
solistica e di prevalente interesse melodico, affidata al soprano; struttura:
ABC ADB’C’D’; carattere sereno e luminoso.
Agnus Dei: Aria
tripartita del contralto su accompagnamento di semicrome ribattute, con
interventi corali “a cappella”; grandissimo effetto drammatico e teatrale.
Nel
“progetto esecutivo” di una pagina che preveda un largo impiego del coro, il
primo problema da risolvere riguarda i valori da assegnare al parametro
timbrico: mentre una composizione strumentale ha caratteristiche timbriche
piuttosto definite e si possono ottenere colori diversi solo giocando con gli
equilibri dinamici dei piani sonori, un brano corale presenta una gamma di
possibilità ben superiore. La voce umana, infatti, ha la capacità di esprimersi
in un’infinità di gradazioni timbriche, piuttosto sottili e difficili da
definire: si può dire che quasi il cinquanta per cento del “messaggio estetico”
di una composizione corale viene prodotto dagli aspetti fonici, dal colore del
coro e dalle sue molteplici sfumature. Compito fondamentale del direttore di
coro è proprio la cura della vocalità, intesa come mezzo per ottenere quelle
timbrature, quei valori cromatici senza i quali un coro non esprime che una
piccola parte delle sue potenzialità. La ricerca della giusta dimensione fonica
non è per nulla facile, in quanto, tra tutti i parametri musicali, il timbro è
sicuramente il più indefinito: per
il maestro di coro assume quindi importanza fondamentale la
capacità di percezione interna del dato sonoro (il cosiddetto “orecchio
interno”), che dà la possibilità di avere un riferimento chiaro e sicuro con
cui confrontare l’ascolto diretto in sede di prova. Nel caso della Petite Messe ogni brano, per le sue
caratteristiche formali, ha la necessità di essere contraddistinto da una
ricerca timbrica particolare, nell’ambito di una tendenza generale alle
sonorità “chiare”, trasparenti. Se il coro che affronta questa composizione è
specializzato nel settore lirico-sinfonico (è il caso di quasi tutti i cori
professionali italiani), non è facile ottenere immediatamente la necessaria
adesione stilistica: mentre nelle produzioni liriche, infatti, si richiedono
forte presenza sonora, colore scuro e caldo, timbratura rilevante, vibrato, nel
genere cameristico si preferiscono tinte diverse, molto più sfumate e tenui,
realizzate attraverso un’emissione più leggera, che sfrutta meno le risonanze
pettorali e più quelle “di testa. Quando poi, come nel caso della Petite Messe, si incontrano sezioni
riconducibili alla polifonia classica o al genere fugato, una particolare
emissione è richiesta non solo dalla necessità di aderire allo stile (concetto,
come si è già detto, un po’ ambiguo), ma ancor più dall’esigenza di ottenere,
attraverso una timbratura asciutta ed essenziale, la necessaria trasparenza
delle parti. Non dimentichiamo, poi, che in alcuni brani sonorità e colori
dovranno allontanarsi in qualche misura dall’ambito strettamente cameristico,
in quanto si tratta di veri e propri momenti operistici (il Credo, ad esempio). Questo comporta,
quindi, l’esigenza per il
coro, di utilizzare, nella stessa composizione, sistemi di emissione piuttosto
diversi. La Petite Messe, si è detto,
è notevolmente eterogenea: dall’introduzione del Kyrie al finale dell’Agnus
Dei l’excursus emotivo è
notevole, ed è difficile riuscire a riprodurlo in modo convincente, senza
cadere in una retorica eccessiva ed in effetti priva della misura necessaria
per un testo di questi tipo, scritto sì in pieno Romanticismo, ma da un autore
che ne ha sostanzialmente rifiutato l’estetica. Inoltre, la struttura dei
singoli momenti di questa Messa è basata prevalentemente su accostamenti e
ripetizioni di sezioni (si osservi il Credo,
in cui ritornano, periodicamente, alcuni elementi base); frequenti sono poi le
progressioni, in cui lo stesso materiale è ripetuto più volte. Queste procedure
compositive possono comportare il rischio di una certa monotonia, qualora
un’approfondita visione interpretativa non consenta di realizzare i giusti
contrasti. La Petite Messe inizia “in
punta di piedi”, con un’introduzione strumentale che crea un clima di mistero e
di suspense, ma che
contemporaneamente produce, con un sottile ritmo che si articolerà per tutto il
Kyrie, una sensazione di leggerezza e
di mobilità quasi festosa, con qualche lievissima componente “umoristica” che
rende il carattere del brano enigmatico, difficilmente decifrabile; l’atmosfera
è turbata da momenti di imprevista drammaticità, nelle invocazioni improvvise e
intense (Eleison, a battuta 19, ad
esempio), subito cancellati dalle frasi dolcissime che seguono. Sarebbe un
grave errore considerare questa sezione come un passo uniforme, esclusivamente
dolce, espressivo, sentimentale: esiste una mobilità interna di stati d’animo,
che può fornire all’interprete spunti stimolanti, e che si deve seguire e
sottolineare. La suggestione più intensa del Kyrie è comunque offerta dall’inclusione al suo interno di un
momento di estrema dolcezza, un breve ma stupendo brano “a cappella”, (Christe eleison), squisitamente
classico, quasi l’affiorare di un ricordo lontano, impregnato di misticismo. L’atmosfera
non ben definita del Kyrie viene
rotta dalla proclamazione del Gloria,
quanto mai perentorio ed estroverso, a cui non si dovrà aver timore di
conferire forza e grandiosità. Ma questa “apertura dei cieli” ci viene offerta
per un attimo soltanto, e l’attenzione ritorna all’uomo (et in terra pax hominibus), con un delizioso quadretto natalizio,
sereno ma dimesso nella sua profonda devozione: la staticità armonica che lo
contraddistingue contribuisce a creare quell’idea di immobilità che fa pensare
alla statuarietà ed alla semplicità della scena di un presepio. Semplicità
quasi francescana è la cifra interpretativa di questo passo. Molto più deciso
il terzetto che segue, chiaramente lirico e fluente, a tratti solenne, nella
proclamazione: Propter magnam gloriam
tuam! Il tema della gloria viene ripreso senza reticenza nella celebre (ed
assai impegnativa) pagina del tenore solo (Domine
Deus), in cui la regalità guerriera del Dio degli eserciti che celebrano i
salmi si stempera in un clima di familiare dolcezza ogni qual volta viene
nominato il Figlio unigenito. Questo contrasto, se viene sottolineato con
convinzione, rende la pagina uno dei momenti più felici ed efficaci della
Messa. Da un canto energico, articolato, eroico si dovrà quindi cedere ad
un’espressione lirica, intima, con fraseggio legato e sonorità più tenui, per
prorompere finalmente nella grandiosa invocazione conclusiva, che si può
definire (intendendo il termine nella sua accezione migliore) decisamente trionfalistica.
Il duetto seguente (Qui tollis peccata
mundi), dolce ma teneramente mesto, immobile nella fissità delle forme di
accompagnamento, non può non far pensare alla statica situazione dell’uomo,
oppresso dal peso della colpa: a tratti (battuta 383 e segg.) l’invocazione
tende a diventare drammatica come in alcuni passi del Kyrie, ma il clima di fondo è comunque fiducioso e sereno, e si
risolve nella sezione di chiusa, in cui l’approdo alla tonalità maggiore
esprime sicurezza e stabilità. Il clima trionfalistico già incontrato nell’aria
del tenore viene ripreso in quella del basso (Quondam Tu solus Sanctus), composto con formule piuttosto vicine
agli stilemi dell’opera buffa. È interessante osservare (e forse non è un caso)
che alla fine dell’aria la
proclamazione Tu solus Altissimus, Jesu Christe si
ripete per tre volte, come per tre volte si ripete la professione di Pietro a
Cesarea. Il carattere immediato e la forte carica emotiva di quest’aria sono,
in effetti, quanto mai vicine proprio all’immagine psicologica che i sinottici
danno della fede del primo degli Apostoli. Il Gloria si chiude, quindi, con una fuga stupenda (e assai difficile
tecnicamente), con tre elementi tematici e impianto prevalentemente
tradizionale, ma con un lungo passo accordale cromatico e modulante, tipico
invece delle fughe di epoca romantica, che offre un efficace momento di
contrasto. Il carattere della fuga è festoso, vivissimo, in alcuni momenti
quasi frenetico, soprattutto grazie al ritmo mobilissimo ed alle agilità ai limiti
delle possibilità esecutive di un coro, che si alternano in tutte le parti, e
soprattutto nel rigo dei soprani. Questo clima di esaltazione, che nel finale
diviene addirittura travolgente, è calato in una costruzione architettonica
grandiosa per proporzioni e per respiro, e che si colloca al centro ideale di
tutta la Messa. È difficile riuscire a realizzare in modo convincente questa
fuga, oltre che per le rilevanti difficoltà tecniche, principalmente per il suo carattere ibrido: da
una parte l’autore opta per una costruzione formale elegante e misurata,
dall’altra vi introduce spinte emotive assai forti, che possono rischiare di
turbare la compostezza dell’insieme. E, in effetti, gran parte della Petite Messe oscilla fra la volontà di
ripristinare moduli classici, valorizzando il discorso formale, e l’esigenza di
dare spazio all’emotività (sia essa intesa in senso sentimentale e intimistico,
o entusiastico e grandioso, o prepotentemente drammatico). In questi casi, è
difficile per l’interprete trovare un giusto equilibrio tra valori formali ed
emotivi: in un testo che ha valenze contrastanti si è infatti portati ad
accentuare gli aspetti a noi più congeniali e a perdere un po’ di vista gli
altri. D’altra parte, è pur vero che la settorialità di prospettiva è, in
qualche modo, indice del valore di un’interpretazione, e consente di cogliere
la personalità dell’interprete: non esiste un unico modo “corretto” di leggere
un testo, e anche gli stessi fraintendimenti possono rivelare una propria
suggestione. L’essenziale è che il testo stimoli nell’interprete risposte che
dipendono, comunque, dalla sua situazione soggettiva e che, in un certo senso,
sono tutte corrette e tutte discutibili; l’ascoltatore, a sua volta, reagirà a
quanto l’interprete ha rielaborato sulla base delle proprie capacità di
percezione e del proprio stato emotivo. Queste dinamiche interpersonali sono,
in ultima analisi, il senso dell’esecuzione musicale, che acquista così aspetti
ogni volta nuovi e imprevedibili e che dovrebbe rappresentare, per
l’ascoltatore, un’occasione di introspezione più che un momento di freddo
giudizio critico. Imponente costruzione è pure il Credo, realizzata, però, con semplicità di linee ed economia di
materiali: tutta la struttura, infatti, è ottenuta impiegando quattro diversi
segmenti, che si alternano in vario ordine, ed introducendo periodicamente la formula Credo , proclamata con vigore da tutto il coro,
utilizzato qui come un solido pilastro strutturale. La chiarezza concettuale
(essenziale in ogni professione di fede) prevale giustamente sulla complessità
della costruzione formale; notevole è, comunque, lo spazio concesso al lirismo
ed alla poesia intima, delicatissima (pensiamo al momento in cui il quartetto
solistico, sottovoce e con emozione, ricorda il mistero dell’incarnazione di
Cristo [“Et incarnatus est”, battuta 108]). E di grande dolcezza, mesta e
rassegnata, è l’inserto solistico del soprano (Crucifixus), pacatamente doloroso, che si chiude con il riferimento
alla sepoltura (et sepultus est)
quasi con una dissoluzione della musica e del canto, come se, con la morte di
Cristo, nulla avesse più senso. Qui il soprano dovrà rinunciare ad ogni
tentazione di effetto vocalistico, quasi all’espressione stessa, lasciando
scorrere il canto in un’atteggiamento inerte, rassegnato, privo di qualunque
slancio. Ancora più efficace risulterà quindi la vera e propria esplosione
sonora che annuncia la Resurrezione: da qui infatti il discorso corale riprende
e si sviluppa con entusiasmo crescente e rinnovato vigore. Il Credo termina con una seconda fuga, di
dimensioni inferiori, ma piuttosto simile alla prima, questa pure con tre
spunti tematici (non facili da far risaltare nell’intreccio delle voci), ma di
carattere più sereno e composto, con una “coda” che si snoda in melismi
sovrapposti e che propone anch’essa, alla fine, formule cadenzali di stampo
decisamente operistico. Un momento di alleggerimento, preceduto da una breve
drammatica introduzione, è affidato al pianoforte solo (o all’harmonium, ad libitum): è un commento colloquiale, sapientemente contrappuntato,
in bilico tra intimismo romantico e scienza costruttiva bachiana, che si
colloca all’Offertorio che, nella Petite
Messe, non prevede l’impiego delle voci. Tipico del gusto musicale
liturgico ottocentesco è, in effetti, il sottofondo strumentale nei momenti
fondamentali della celebrazione, realizzato con l’organo o con l’harmonium. Questo strumento, assai
diffuso nella musica liturgica del secondo Ottocento, ha un particolare timbro
sentimentale e un carattere meno grandioso dell’organo, più semplice, più
quotidiano: molto significativo quindi il suo impiego nella Petite Messe, dove Rossini sembra spesso
cercare un rapporto semplice, quasi cordiale con il “Buon Dio” (ricordiamo che
questo capolavoro venne concepito non per l’uso liturgico, ma per una più
intima destinazione familiare). Nel Sanctus
il coro, qui senza sostegno strumentale, propone una pagina dolcissime ed allo
stesso tempo intensa. Nessun trionfalismo: prevale piuttosto un andamento
ternario di pastorale, carezzevole e sinuoso, morbidamente sussurrato in una
ricerca timbrica che punterà sulla morbidezza e sulla rotondità, mentre il
fraseggio dovrà essere particolarmente legato e fluente, e l’espressione densa
di misticismo. Al Sanctus segue
quello che viene spontaneo definire il “largo alla Comunione” (O salutaris Hostia), che rappresenta il
momento di maggiore apertura lirica della Petite
Messe, dove il canto del soprano si espande con eleganza snodandosi in
belle progressioni, che ora si slanciano verso l’altro, ora si riavvolgono su
loro stesse. È una pagina serena, di grande freschezza, luminosa e solare dove
l’interprete può esprimere liberamente le proprie doti vocali. La Messa si
chiude con l’Agnus Dei, un brano di
altissimo valore, ricchissimo di significati espressivi, oscillante tra la
dolcezza triste e commossa e la drammaticità più cupa e intensa (di matrice
operistica), alla triplice invocazione del contralto (Miserere nobis!) fa seguito un delicatissimo richiamo corale alla
pace. L’accompagnamento in semicrome ribattute conferisce un carattere ansioso
a tutto l’Agnus Dei, che chiude con
un effetto di grande potenza una composizione che, per l’importanza della
componente sentimentale e per la sapiente architettura, si presta perfettamente
a tradurre in termini musicali la religiosità cattolica dell’Ottocento.