19 gennaio 2023

“Formazioni” di Luciano Berio

da Un ricordo al futuro. Lezioni americane

Luciano Berio
 (Oneglia, 1925 – Roma, 2003)
 

(Foto: radioscrignorai.it)

Formazioni

L’onore di tenere queste conferenze coincide in me con il desiderio di esporvi i miei dubbi sulla possibilità, oggi, di esprimere una visione unitaria del fare e del pensare musicale, e sull’opportunità di cercare un filo d’Arianna che permetta, a chi lo desidera, di districarsi nel caleidoscopio musicale di questi ultimi decenni e di tentare una tassonomia e una definizione degli innumerevoli e diversi modi di fare e di avvicinarsi, oggi alla musica. 


Non voglio, con questo, invitarvi al silenzio dei sensi o a collocare l’esperienza musicale in un fuggevole gioco di specchi ermeneutici. Voglio però suggerirvi alcuni punti di riferimento che sono stati utili a me, nel mio lavoro e nel mio occasionale bisogno di interrogarmi sulla natura della peculiare e affascinante Babele di comportamenti musicali che ci circonda. Vorrei ricordare le parole che Italo Calvino ha scritto per la conclusione della mia azione musicale, Un re in ascolto, quando alla fine il protagonista se ne va dicendo: «un ricordo al futuro». Penso che questa frase sintetizzi il senso delle mie conferenze.

Non ho intenzione di occuparmi di musica come rassicurante mercanzia emotiva per l’ascoltatore o come rassicurante bagaglio procedurale per il compositore. Mi piace invece leggere o ascoltare la musica che si interroga, ci interroga e ci invita a una costruttiva revisione o, addirittura, a una sospensione del nostro rapporto col passato e a una sua riscoperta sulle tracce di percorsi futuri. Questo esercizio di revisione può anche diventare una «selva oscura», una foresta di consapevolezze che, diversamente da quella di Dante, ci invita, ogni tanto, al sacrificio dei cammini volutamente smarriti e ritrovati, e ci spinge anche a compiere, come gli attori di una rappresentazione brechtiana con la loro famosa Verfremdung, un passo fuori da noi stessi, a guardarci fare, a interrogare il nostro rapporto con la realtà, a mettere in dubbio l’idea stessa di una realtà musicale definibile e traducibile in parole e, anche, l’idea di un rapporto lineare fra dimensione empirica e dimensione teorica della musica. Penso che dovremmo mettere seriamente in dubbio l’idea, certo protettiva ma anche un po’ ipocrita, che l’esperienza musicale sia paragonabile a un immenso edificio, alla costruzione del quale milioni di uomini hanno lavorato ininterrottamente per alcuni millenni e continuano a lavorarci tutt’ora (oggi, finalmente, anche con le donne), avendo la Storia come architetto e le società come designer

Una pianta, una sezione o un profilo di questo metaforico edificio non l’avremo mai. Se volessimo entrare in alcune delle sue stanze, o storie particolari, dovremmo fare i conti con il contenuto, le dimensioni e le funzioni di ogni nuova stanza che, già condizionata da quelle circostanti, può a sua volta modificare il senso delle altre storie particolari, e può indurci a re-interpretare e a re-inventare quella che pensiamo essere la storia dell’edificio. Si dirà, giustamente, che questo non è un privilegio della musica e che tutte le cose che trovano posto in una cronologia sono inevitabilmente sottoposte a cambiamenti di prospettiva e di attinenza. Ma quelle stanze hanno un suono. In quelle stanze ci sono voci e strumenti che cantano e suonano, giorno e notte, strumenti che sono nati e si sono sviluppati come conferme di maniere e di pensieri musicali che li avevano generati e con i quali si sono temporaneamente identificati. Le stanze dell’Ars nova, del Barocco, di Schubert, di Mahler, della scuola di Vienna, di Stravinsky, degli anni di Darmstadt e di oggi continuano, in maniere diverse, a cambiare di prospettiva e di contenuto. La storia di questi cambiamenti è la storia delle nostre azioni e delle nostre idee che sembrano talvolta trascendere e precorrere la presenza stessa di chi è chiamato a rappresentare e a farsi soggettivamente attore di quei cambiamenti e di quelle stesse idee. 

Se così non fosse, la costruzione dell’edificio diventerebbe qualcosa di unanime, di pacificamente collettivo, di deterministicamente succube delle famigerate «necessità storiche» e, quindi, musicalmente inutile. Al tempo stesso sappiamo però di poter conoscere e spiegare soltanto le esperienze musicali già avvenute, le virtualità già pienamente realizzate. La storia della musica, diversamente dalla storia della scienza, non è mai fatta di intenti bensì di cose compite; non è fatta di forme potenziali in attesa di essere definite bensì di Testi (con la T maiuscola e con il numero più grande possibile di connotazioni musicali) – di Testi in attesa di essere interpretati: concettualmente, emotivamente e praticamente. 

Nella musica, come in letteratura, è concepibile un’alternativa fra la supremazia del testo nei confronti del lettore e il primato del lettore sul testo: il lettore e il testo diventano Testo. Come dice Harold Bloom, «si è o si diventa ciò che si legge» e «quello che sei è l’unica cosa che puoi leggere». Le implicazioni di queste affermazioni sono infinite. Applicate alla musica esse devono però prendere in considerazione l’esecuzione, e allora la questione della supremazia diventa molto complicata: eseguire e interpretare un testo musicale non è ovviamente la stessa cosa come leggere e interpretare un testo letterario. Forse le difficoltà incontrate dai compositori quando parlano di testi, nascono dalla loro sensazione di essere essi stessi un Testo musicale, di viverci dentro e quindi di non possedere il distacco necessario per esplorare oggettivamente la natura del loro rapporto con se stessi in quanto Testi… 

Non è un caso che i commenti più illuminati scritti da compositori siano quelli su altri compositori, e che i compositori-scrittori quali Schumann e Debussy si siano «nascosti» dietro pseudonimi. La stessa cosa potrebbe valere oggi, anche senza pseudonimo, a condizione che lo scopo principale del compositore che analizza l’altro non sia quello di dimostrare che la sua analisi «funziona» e che sia immune da pregiudizi.
[…]

Nella lingua, la parola implica ed esclude molte cose diverse, dette e non dette, e il nome della cosa non è la cosa tessa. Invece la «parola» musicale, ciò che la musica pronuncia, è sempre la cosa. Una melodia di Schubert o una configurazione musicale di Schoenberg o Stravinsky non sono le pedine su una scacchiera musica; esse portano con sé l’esperienza di altre melodie e di altre configurazioni. Le loro trasformazioni sono inscritte, per così dire, nel loro codice genetico. Questa autosufficienza dà all’esperienza musicale un’enorme apertura semantica e associativa di tale non codificabile natura che il semiologo potrà venirne a capo solo attraverso codici interpretativi legati all’ascolto o (più importante) al ri-ascolto, piuttosto che ai processi creativi e formativi. Questa è la ragione per cui un algoritmo che descriva processi musicali significativi è ancora un pio desiderio. A differenza del linguaggio, alla musica non si addice il prefisso «meta»: la meta-musica non esiste, a meno di non farne un uso molto triviale e teatrale. Le metafore e le metonimie musicali semplicemente non esistono. L’allitterazione, nella musica, non è più una figura retorica ma un principio strutturante (Beethoven ne è pieno). La musica non si può de-costruire. Le volpi decostruttiviste non sembrano tentate di mangiare l’uva musicale, forse pensano che non sia ancora matura… Ciascun linguaggio, è stato detto, sa riflettere su se stesso. Anche la musica può farlo, per quanto risulti difficile assumerla in termini di linguaggio. Il fatto è che ogni opera musicale è un insieme di sistemi parziali che parlano fra loro e interagiscono: non per semplice parallelismo e compresenza ma per una sorta di organica e instabile reciprocità. Quando manca quella instabilità, ci troviamo in uno spazio musicale tanto affascinante quando scomodo dove siamo invogliati al pensiero ma possiamo fare a meno dell’ascolto: è il caso di opere come il Quintetto per fiati di Schoenberg o il primo libro di Structures per due pianoforti di Boulez. Ci piace pensare che la musica esegua se stessa prima ancora di essere eseguita: non solo perché un compositore può sentirla suonare silenziosamente nella propria mente, ma anche perché tutti i suoi strati significativi esibiscono concettualmente la loro autonomia e la loro reciproca interazione.

[…]

(Luciano Berio, Un ricordo al futuro. Lezioni americane, Einuadi, Torino 2006, pp. 5-8 e 12-13)

Adriana Benignetti