28 dicembre 2022

“Il pianoforte in salotto a Napoli nell’Ottocento” di Vincenzo Vitale


A Napoli il salotto, nella seconda metà dell’ottocento, offriva all’osservatore di costume un campionario ricco degli esemplari più estrosi e inconsueti, non che d’Italia, d’Europa. 
La gamma coloristica e ambientale andava dal ‘basso (il pianterreno dei vicoli senza luce), abbondantemente fornito di cianfrusaglie, bambole di pezza e fiori finti, dove la chitarra e il mandolino erano di casa, fino al palazzo gentilizio, più o meno fatiscente, dove il pianoforte era despota.


Fu la borghesia a coltivare il prototipo del salotto napoletano. Vi troneggiava la dormeuse di velluto, contornata da poltrone, poltroncine e tabourets. Alle finestre tendoni e mantovane damascate proteggevano bianche e leggere cortine trapuntate di filets e di ‘orli a giorno’. Nella penombra il lampadario ‘a gocce’ faceva spiccare in qualche angolo una mensola su cui falsi o veri ‘Capodimonte’, inchinevoli e leziosi, simboleggiavano quelle danze che avrebbero chiuso la ‘periodica’ con la tradizionale ‘quadriglia’.


Regina di questi convegni era spesso l’accollatissima e domestica pianista, che eseguiva sul Boisselet verticale la Prière d’un vierge o la Rêverie di Rosellen. Perché sempre il pianoforte era il sostegno di queste riunioni mondane, sia che dovesse offrire ai convenuti delle chioccolanti esecuzioni della Bellissima di Coop, sia che servisse d’aiuto alla cantante «che aveva una notevole voce di soprano sfogato» e che si cimentava con celebri pezzi d’opera, giustificando le frequenti ‘stecche’ col raffreddore contratto il giorno precedente al bagno ‘Ma Santé’ di San Giovanni a Teduccio.

Il pianoforte a coda era tollerato nel salotto napoletano come un vecchio arnese pittoresco. E forse non a torto, trattandosi in generale di decrepiti Erard o fatiscenti Kaps, che un giorno costituirono l’emblema del progresso di quel meccanismo che, escogitato dall’italiano Bartolomeo Cristofori, fu captato da più tenaci ed attrezzati fabbricanti nordici.

Il pianoforte chic fu il verticale. Da quello a corde diritte e telaio di legno con meccanica ‘a baionetta’ all’altro a corde incrociate e telaio in ferro solennemente definito ‘gran formato’.

Su quelle tastiere d’avorio (anche le marche più rozze sdegnavano l’uso della cosiddetta ‘pastiglia’) scorsero fiumi di note: arpeggi, scale, trilli, ‘volatine’. Prima le candele di cera, poi quelle elettriche, simulanti anche lo sgocciolare del moccolo, illuminarono il leggio su cui troneggiava lo spartito della Parafrasi sul Mosè di De Meglio o le reminiscenze della ‘Sonnambula’ di Cerimele.



Il Rampserger di zia Annina era ‘gran formato’ ed aveva un pedigree di alta nobiltà: era tedesco. Tanto bastava per far zittire chiunque osasse accennare a qualche riserva sulla sua efficienza. Era fabbricato a Stuttgart, nome inciso in oro sul legno nero del coperchio e che zia Annina traduceva bonariamente in ‘Studiacarte’, supponendo che fosse la dizione germanica di leggio


Il pianoforte verticale era l’ornamento base del salotto, dunque. La nostra ingratitudine lo considera quasi grottesco. Ingiustizia somma. Il pianoforte del salotto dorato, dell’anticamera falso Impero o del boudoir liberty sovraccarico di bibelots e di portafiori, fu il polo d’attrazione di quanti vollero accostarsi alla musica. Abituati come siamo ad essere perseguitati dalla radio, a subire la suggestione, la violenza inarrestabile del televisore, schiavi inconsapevoli del condizionamento sadico ed irreversibile di questi mezzi di imposizione tecnologica, non possiamo ormai più immaginare la curiosità e l’interesse che destava l’esecuzione pianistica, fosse pure di Prima carezza di Costantino De Crescenzo, o quale potesse essere la rapinosa, accattivante esecuzione provocata dall’ascolto, quasi furtivamente, un pianoforte, sotto le finestre di un vico Stretto ai Miracoli al chiarore d’un lampione a gas, in una sera estiva: anche se la vittima dell’esecutore dovesse identificarsi nella Patetica di Beethoven. Oppure quanto sia stato sano incitamento al nostro senso critico indugiarci a seguire, in ore più meridiane, dal balcone che dava sul piccolo, moribondo giardino, le evoluzioni compiute dalla figlia del barone dirimpettaio, sul verticale Fratelli Federico a danno del Gazouillement de printemps di Sinding. E seguirne con ansia i tentativi insani di puntellare un’esecuzione che sarebbe dovuta essere pronta per la sera dell’onomastico paterno nella cornice d’un salotto già da alcuni giorni riassettato ed agghindato.

[...]



Vincenzo Vitale, Il pianoforte a Napoli nell’ottocento, Saggi Bibliopolis 10, Napoli: Bibliopolis 1983

Adriana Benignetti